La risposta, a mio parere è: “ni”. Se per “bigotto” indichiamo «chi assiduamente e scrupolosamente osserva le pratiche del culto senza afferrarne l'intima essenza religiosa» (Google) o una «persona che ha una religiosità solo esteriore, non riscontrabile nei fatti» (Wikidizionario), certamente Alessandro Manzoni non era un bigotto. Lui ci credeva veramente alla Provvidenza e al messaggio cristiano (non sappiamo se anche nell’intimo, ma di sicuro nella sua immagine pubblica). Tuttavia se per “bigotto” intendiamo «persona o pensiero che mostra una grande religiosità unita ad altrettanta intolleranza e mancanza di flessibilità» (Wikidizionario) o «persona che mostra zelo esagerato più nelle pratiche esterne che nello spirito della religione, osservando con ostentazione e pignoleria tutte le regole del culto» (Treccani), Manzoni risponde in parte a questa definizione, ma non più dei suoi contemporanei. I personaggi de I promessi sposi, che mi sono riletto per l’ennesima volta durante questa quarantena da Covid-19, un capitolo al giorno[1], mostrano una grande varietà di intendere il sentimento religioso: completamente esteriore in Don Abbondio, portato alle estreme conseguenze nel cardinale Federigo Borromeo.
Dopo averlo detestato a scuola, come la maggioranza degli studenti di ieri e di oggi, ho poi riscoperto questo romanzo celeberrimo (ma solo in Italia, all’estero non lo conosce nessuno) per conto mio, in una serie di letture, fatte a distanza di anni, che mi trovavano ogni volta “diverso” (e quindi capace di letture “diverse”). Questa del 2020 ho deciso che sarà la lettura “definitiva”, per me. D’altra parte le altre cose scritte dal Manzoni sono del tutto illeggibili, a partire dagli odiosi 5 maggio e Marzo 1821, costretti a imparare a memoria sui banchi di scuola. Molte le cose che sono state dette su questo libro, e molte quelle che vorrei chiosare io, a partire dalla lingua in cui è scritto, ma dovrei scriverne un libro a parte. Non è una lettura agevole. Non lo era quando è stato scritto – i «venticinque lettori» che aveva in mente il Manzoni erano persone colte, lombardi, in grado di comprendere (se non di parlare) una lingua che in Italia era prevalentemente scritta e padroneggiata da pochi[2]. Non è facile da leggere nemmeno oggi, anche se per motivi diversi. Io auspicherei una “traduzione” in lingua corrente, ma sarei lapidato da professori e puristi. Sull’attualizzazione linguistica ho le mie idee, abbiate pazienza: per me ha senso anche “tradurre” la Divina Commedia o il Decamerone, in alternativa al testo originale. Penso che una versione de I promessi sposi in italiano del XXI secolo sarebbe interessante da leggere, sicuramente più accattivante: in pratica un’operazione parallela a quella che il Manzoni finge di fare “riscrivendo” il manoscritto dell’anonimo secentista, che giudicava illeggibile dal punto di vista stilistico. Ecco, non si offenda il Manzoni se, a distanza di due secoli, possiamo dare un giudizio simile riguardo al suo italiano ottocentesco: anzi penso che avallerebbe questa riscrittura visto che lui stesso lo ha suggerito implicitamente riportando nella sua lingua un testo di due secoli prima. A proposito, ricordo la bellissima ristampa anastatica della Mondadori di qualche anno fa. Quando ero studente universitario scoprii, grazie al prof. Toschi[3] che in genere le edizioni del capolavoro sono “monche”: manca l’apparato iconografico, le incisioni realizzate da Francesco Gonin con la supervisione dello stesso Manzoni. Leggere I promessi sposi senza illustrazioni è un po’ come ascoltare una canzone senza la musica: un ulteriore penalizzazione per gli studenti. I promessi sposi erano un romanzo illustrato, non dimentichiamolo, “multimediale” ante litteram. Detto questo, perché è utile e piacevole leggere (o rileggere) questo vecchio romanzo ottocentesco anche ai tempi dei social e degli e-book, magari al di fuori degli obblighi scolastici? Le curatrici dell’edizione che mi letto durante la pandemia indicano i seguenti motivi: a) «il romanzo è bello»: sì, vero, premesso che il concetto di “bello” è soggettivo. È un romano appassionante, un meccanismo perfetto, se fosse un’auto sarebbe una “fuoriserie” (riprendo l’immagine dalle curatrici). Trovo però un peccato che il Manzoni abbia eliminato molti degli elementi gotici presenti nel Fermo e Lucia, (a me piace il gotico…). b) «è ancora attuale»: in effetti in questo periodo di pandemia il pensiero non può che andare alla peste di Milano di quattro secoli fa, e trovare perfino inquietanti parallelismi (anche allora c’erano i “complottisti” e i “negazionisti” – Don Ferrante, la caccia agli untori, eccetera, e anche allora il governo è intervenuto in ritardo e ha commesso vari errori). Questo facile confronto ha cominciato a riecheggiare nei media fin dall’inizio del lockdown (termine che non sarebbe piaciuto al Manzoni), ma al di là di questo aspetto contingente il romanzo è sempre attuale perché presenta degli archetipi, dei personaggi uguali in tutte le epoche storiche. Quanti Abbondi e Rodrighi conosciamo ancora oggi? c) «è un romanzo perfettamente costruito»: non a caso ci ha lavorato per decenni, il nostro Manzoni; c’è una perfezione ammirevole, un respiro così ampio e un equilibrio che stupisce ancora oggi. Punti deboli: i capitoli-saggio in cui si dilunga su questioni storiche che oltre a risultare ostiche e di scarso interesse, sono anche prolisse: i capitoli 31 e 32 sono illeggibili, si potrebbero togliere e la storia ne gioverebbe. La storia è nota a tutti, quindi non c’è bisogno di spoilerarla né di soffermarmici: la do per scontata. Vorrei però passare in rassegna i personaggi più importanti con le mie impressioni: 1) Don Abbondio, che entra in scena per primo. È uno dei personaggi più interessanti: il Manzoni ha parole aspre per lui, tramite la bocca del cardinale Federigo, ma in fondo anche di affetto. È tragicomico: un uomo nato nel secolo sbagliato (ma forse se fosse nato ai nostri giorni si sarebbe fatto prete comunque), un vaso di coccio che viaggia insieme a vasi di ferro, stando in continua apprensione. Non è cattivo: quanti di noi davanti ai bravi avrebbero reagito diversamente? Per lui salvare la pelle è la cosa più importante: in questo posso comprenderlo in pieno, in quando la vita che abbiamo è una ed è l’unica cosa veramente preziosa. Cavoli, lo stavano minacciando di morte! Io avrei fatto altrettanto, lo confesso senza ipocrisie. Non amo i martiri; li rispetto ma non comprendo la loro filosofia. Se il mondo fosse popolato solo dal modello “Abbondio”, seguace del “vivi e lascia vivere”, sarebbe certo un mondo migliore, senza guerre e prepotenze, ma purtroppo il mondo è ben diverso e così abbiamo bisogno di eroi (che ammiro ma con cui non mi identifico). 2) Renzo, ragazzo simpatico ma ingenuo nei momenti sbagliati. Nel finale elenca diverse cose che non rifarebbe, e ci auguriamo che abbia imparato la lezione. Di lui mi piace la sua sete di giustizia, che alcuni contestano essere sete di “vendetta”: ma per me le due parole indicano lo stesso concetto. Fossi stato Renzo avrei mandato a quel paese Fra Cristoforo e sarei andato diretto da Don Rodrigo per farlo fuori… dopo aver preparato però un piano adeguato. Non sarei stato così impulsivo, quello no. 4) Di Don Rodrigo non si può dire altro che era un bullo scemo, ma non più della maggioranza dei suoi compagni “nobili” dell’epoca (e anche dei “potenti” di oggi); su di lui non c’è molto altro da dire, non mi fa pena nemmeno quando viene colpito dalla peste. 5) Fra’ Cristoforo ha dei tratti che me lo rendono simpatico (il difendere gli umili, il dare addosso ai prepotenti) e altri che proprio non capisco e non approvo: quando, nel capitolo 35 incontra Renzo nel lazzaretto lo “costringe” non solo a perdonare il suo aguzzino, Don Rodrigo, ma addirittura ad “amarlo”. Come si possa amare a comando, per di più uno che ti ha rovinato la vita, questo rimane un mistero che il Manzoni non spiega. Nemmeno Cristoforo lo spiega: dà per scontato che sia così. Come il cardinale Borromeo, anche Cristoforo pretende dagli altri la stessa inflessibilità, lo stesso rigore, con cui hanno forgiato la propria vita. Alla fine dei tratti di prepotenza, retaggio della sua antica vita da nobile, rispuntano fuori nel pretendere che gli altri la vedano come lui; perciò lo trovo un personaggio ambiguo per cui non riesco a provare una simpatia senza riserve.[4] 6) Gertrude, la Monaca di Monza, è certo una povera disgraziata, a cui il Manzoni avrebbe consigliato di rassegnarsi alla sua monacazione forzata e a trovare conforto nella stessa fede – che nelle sue condizioni avrebbe perso anche una santa. Il Manzoni ovviamente disapprova la violenza psicologica del padre di Gertrude, ma non disapprova ciò che era assolutamente normale nel ‘600, nell’800 e perfino ai giorni nostri tra le famiglie cattoliche: imporre la propria religione ai figli. Gli stessi Renzo e Lucia faranno altrettanto, allevando nel “timor di Dio” la loro numerosa prole, come su ordine (più che consiglio) di fra’ Cristoforo morente nel lazzaretto. Parlare di libertà di culto era fuori luogo per Manzoni, anche per questo non metto un “no” netto sulla domanda iniziale sulla sua bigottaggine. Gertrude ha fatto bene a venire meno ai voti di castità pronunciati contro la sua volontà, magari poteva scegliersi un soggetto meno losco rispetto a Egidio per romperli… 7) L’Innominato mi dà lo spunto per una riflessione sui “cattivi” che diventano “buoni”. È una cosa rara in letteratura: di solito i cattivi fanno una brutta fine e anche se puniti non si pentono affatto, anzi. Qualche volta trionfano pure (come accade spesso nella realtà). Personalmente godo quando il cattivo di turno ha quel che si merita, ma godrei ancora di più se si pentisse e rimediasse al male fatto: perciò il personaggio dell’Innominato mi piace, anche perché non si limita a pentirsi formalmente (quello riesce a tutti, se non si deve pagare per i propri errori) ma si dà attivamente da fare per rimediare. La trovo una cosa bellissima, l’episodio più bello del romanzo, ma anche utopica: le persone, nella realtà ma anche in letteratura, non cambiano così radicalmente, purtroppo. È più frequente anzi che i buoni diventino cattivi che viceversa. Tornando alla questione iniziale, Manzoni, con tutta la sua intelligenza e sensibilità, è figlio del suo tempo: nell’Europa dell’Ottocento, per molti versi simile a quella del Seicento, ci si poteva ancora scannare per motivi religiosi[5]. Non che all’epoca non esistessero pensatori materialisti (ce n’erano perfino nel XVII secolo: i “libertini” Cyrano de Bergerac, Gabriel Naudé e Gassendi, per fare qualche nome) ma accettare che l’altro adori un altro dio o, peggio ancora, sia ateo, era chiedere troppo a un uomo di quell’epoca (e anche a molti uomini e donne di oggi, purtroppo). Con Manzoni non credo sarebbe stato possibile parlare di ateismo: con penso proprio che avrei potuto intavolare un dialogo con lui se, grazie a una macchina del tempo, me lo fossi trovato davanti. E poi, alla fine, i promessi sposi non potevano andarsi a sposare altrove, da qualche altro prete, senza create tanti «imbrogli»? Massimo Acciai Baggiani
Note:
[1] Nell’edizione scolastica a cura di Daniela Ciocca e Tina Ferri (A. Mondadori scuola, 2009). [2] Il “popolo italiano”, non ancora unito politicamente, parlava gli innumerevoli dialetti: la Questione della Lingua si sarebbe proposta all’indomani dell’Unità, e avrebbe chiamato in causa lo stesso Manzoni [3] Con cui mi sono laureato. [4] D’altronde lo stesso narratore, nella chiusura del romanzo, chiede ai suoi “25 lettori” di voler bene all’autore secentesco e al narratore stesso (che sappiamo essere la stessa persona); si può dire che se l’opera ci è piaciuta non c’è bisogno di questa richiesta, e se non c’è piaciuta accettiamo comunque le scuse che – per pararsi – Manzoni mette proprio nell’ultima frase come “captatio benevolentiae”. [5] Come oggi avviene in contesti di fanatismo islamico o induista.
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