In Italia pullulano, impuniti, i neofascisti: le istituzioni non osano toccarli, anche se la Costituzione italiana – nata com’è noto su basi antifasciste – e la legge Scelba[1] dovrebbero in teoria punire il reato di “apologia di fascismo”. Lo sappiamo bene, e basta dare un’occhiata a Facebook per vedere che il neofascismo è ampiamente tollerato anche da Zuckemberg (salvo la decisione, attuata qualche tempo fa, dal social network di cancellare i profili di Casapound e di Forza Nuova: decisione che ha fatto scalpore e ha fatto gridare all’ “attentato alla libertà di espressione” proprio coloro che avevano fatto la loro bandiera della censura e dell’attacco violento a chi non la pensava come loro…). In Germania sono più seri da questo punto di vista: forse perché il nazismo è stata una cosa ben più “seria” del fascismo e le ferite della seconda guerra mondiale bruciano ancora: tuttavia i partiti di estrema destra non mancano neanche là, così come i giovani che si rifanno apertamente al movimento creato da Hitler.
Di “neonazi” ve ne sono di diverse specie – come apprendiamo dalla lettura del romanzo autobiografico di Timo F., Neonazi (edito in Italia nel 2018 nella bellissima traduzione di Marco Scaldini[2]) – tutte accomunate dall’odio verso il diverso, dal nazionalismo a oltranza e dall’amore per le armi e le divise. Il romanzo è scritto in prima persona da un ragazzo (che si è firmato, per ovvi motivi, con uno pseudonimo) entrato a quattordici anni (nel 2008) nel mondo dell’estrema destra e da questo uscito grazie a un assistente sociale coscienzioso che lo ha aiutato a rifarsi una vita. Timo ci spiega come si diventa “neonazi”: nel suo caso il tramite è stata la madre: una donna snaturata e irresponsabile, con un passato da skinhead, di cui ha cercato sempre di conquistarsi l’amore (sentimento di cui lei non è capace). La famiglia di Timo è infatti disfunzionale: il vero padre non l’ha mai conosciuto, la madre passa da un compagno all’altro con disinvoltura, non è in grado ti tenere unita la famiglia (composta da altri due figli e una figlia, avuti tutti con uomini diversi), è anaffettiva ed egoista. Timo al contrario è un bambino intelligente, piuttosto solitario, insicuro, in cerca dell’approvazione degli adulti e dei coetanei: Inizia ascoltando musica di destra – che parla di cameratismo, di superiorità dei “veri tedeschi”, di odio verso gli ebrei – e inizia a frequentare “camerati” tra cui si sente un forte senso di appartenenza: si sente forte, importante, cerca di far carriera nel partito. La madre dapprima lo incoraggia poi, vedendo che “l’allievo supera il maestro”, inizia a prenderlo in giro e a demolire le sue “bravate”. Timo partecipa alle manifestazioni, organizza “azioni” vandaliche notturne in cui strappa i manifesti elettorali della sinistra, sostituendoli con gli adesivi del partito, indossa magliette con slogan razzisti, si veste insomma da “vero ariano”. Stringe amicizie equivoche e si prodiga con grande fervore per la causa, finendo perfino nei guai con la polizia. Qui inizia la svolta. Timo si rende conto che i suoi supposti amici non sono in realtà veri amici, che lo hanno sempre sfruttato e ingannato, che le idee negazioniste sull’Olocausto e le teorie della razza sono tutte stronzate: attraverso il dialogo con Oliver, l’assistente sociale che gli viene assegnato, comprende che non ha bisogno di appoggiarsi a certe compagnie per realizzarsi come persona. Divenuto “traditore”, perfino agli stessi occhi di sua madre (con cui poi romperà ogni rapporto durante una scena intensissima), inizia a subire le rappresaglie dei suoi ex camerati, ma rimane fermo nella sua decisione di abbandonare l’estrema destra e riesce a costruirsi una vita normale, con una compagna e una famiglia sua. Ciò che possiamo imparare da questo libro è che dietro l’atteggiamento di tanti neonazisti (ma lo stesso discorso vale per i neofascisti nostrani, e per tutti gli estremisti del mondo) c’è una grande insicurezza, la volontà di superare la solitudine, di sentirsi parte di qualcosa, insomma c’è un io non ben formato, una personalità fragile. Dovremo ricordarcelo quando vediamo tanti giovani e non più giovani che urlano slogan tipo “prima gli italiani!” o “negri di m***!” o “zecche comuniste!”. In fondo sono solo dei poverini, a molti di loro non gliene frega neanche niente della razza, del primato nazionale o in generale della politica: basta avere un nemico comune che li aggreghi… la mia visione del problema è cambiata leggendo questo libro; prima avrei dato loro una dose della loro stessa medicina, adesso mi fanno soprattutto pena. Sono persone che non stanno bene: non si curano con le bastonate (come pensavo) ma con l’istruzione e la presenza di adulti responsabili ed empatici. Massimo Acciai Baggiani
Bibliografia:
Scrivono in PASSPARnous:
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Saggio breve di Daniele Vergni |
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