Si faceva fatica in ufficio: il caldo era insopportabile. Firenze è una fornace d’estate. Dormivo male la notte e di giorno me ne andavo per le solite biblioteche, a leggere distrattamente i soliti romanzi. Non mi divertivo più da molto tempo. Poi una mattina, mentre sputavo caffè bollente nella tazza, nell’atto istintivo di riparare all’ustione con un fazzoletto infilai la mano nella tasca della giacca ed eccoti una cartolina. Mi pulii con un fazzoletto e guardai la fotografia: era Torino al tramonto. La cartolina era di Linda. Giovanni... Torino è strana. Dicono che sia elegante, probabilmente è così; mi sembra un po’ troppo squadrata e rigida abituata come sono alla morbidezza fiorentina. Ma c’è tanto verde, parchi ovunque, e ieri sono stata sulla collina che si affaccia sulla città e me la sono guardata luccicare nel crepuscolo. Ti ho pensato, di quando mi parlavi di Pavese che se ne stava come io ieri a guardare la sua città e vedeva chissà cosa... Le tue fantasie sugli scrittori mi hanno sempre affascinata per il tuo trasporto emotivo nell’immaginarli, come se fossero i tuoi più cari amici. Non so, ti penso e spero che stai bene. Non scrivermi per favore. Restai ancora un attimo a guardare la cartolina... Il principale mi aveva detto di prendere una vacanza: “Ha un’aria esaurita Giovanni, se ne vada in ferie.” “E dove?” Sudato e grave sghignazzò un attimo. “Come faccio a saperlo? Vada a riposarsi un poco, via dalla città. Vada al mare! Sono tre anni che non prende ferie: gliele impongo.” Me le imponeva. Dunque impotente, pensai di andare al mare. E a fare che? Solo l’idea di quei corpi nudi in attesa di abbronzarsi... No: ci vada lui al mare.
Con Linda c’eravamo voluti bene, ma si sa. Guardavo quella cartolina. Era nella tasca della giacca. Mi accorsi che non mettevo quella giacca da molto tempo: anni. Ieri facendo le pulizie in casa l’avevo trovata infondo all’armadio, così stamani l’avevo indossata. Vogliamo vederci un indizio? Chissà che fine aveva fatto Linda... Di mestiere traducevo romanzi. Bella fregatura eh? Dall’inglese all’italiano. La casa editrice per cui lavoravo mi aveva persino dato un ufficio, da qualche parte. Niente di che, era un ufficio comune: eravamo in tre. Degli altri due non vi parlo neanche, vi basti la mia di miseria. Vivevo con mia madre. “Giovanni torni a casa a cena?” “No mamma.” Certo che provai anch’io a scrivere il mio romanzo. Nessuno ne ha voluto sapere. Solo perché uno è appassionato a qualcosa non significa che la passione gli riesca, per quanta passione ci metta. No, non c’è diritto né dovere: è parzialmente una scelta e per altra parte un essere scelti. C’è chi non ha niente da scrivere ma sa scrivere. Poi ci sono quelli che hanno qualcosa da scrivere e allora non ha poi tanta importanza come scrivono. Io non avevo niente da scrivere e non sapevo scrivere, così ho pensato bene di scrivere un romanzo. Non fu un successo: me ne feci una ragione. Camminavo per le strade nel caldo di agosto, la lingua ustionata e Manhattan Transfer di John Dos Passos sotto braccio. Quel libro mi annoiava, ma forse la colpa era mia. Con Linda c’eravamo voluti bene, ma poi lei è partita. Mi fermai lungo il fiume. Sedevamo qua con una bottiglia di vino bianco quando me lo disse... L’amore: che orrore. Guardai il fiume e mi venne voglia di bagnarmi. Dannato agosto. Posai Dos Passos sul muricciolo, mi asciugai il sudore con un fazzoletto e mi sfilai la giacca. Estrassi la cartolina di Linda e rilessi velocemente il testo. Poi voltai la cartolina e guardai la foto. Presi il treno di mezzogiorno. Ero giusto tornato a casa per fare le valige. “Dove vai?” mi chiese mia madre. “Via!” dissi, e uscii. Comprai il biglietto e salii sul treno. Come abbandonavamo la città e la periferia spariva dal finestrino, pensai al mio principale. Vada al mare, mi disse. Sprofondai nel quadro. Era un pittore quel Dos Passos. Descrizioni minuziose di colori che neanche riuscivo a immaginare perché non conoscevo le parole che li evocavano. Poi il labirinto dei destini incrociati: proprio come avviene in una grande città. New York millenovecentoquindici? Pavese nei suoi libri raccontava di quando scendevano dalla collina – quella dove era stata Linda – e si tuffavano nelle strade di quella Torino che pareva loro New York. Com’è relativa la geografia; com’è relativa la vita. Dopo tre ore e mezzo di sussultare nel vagone ero a Torino. Scesi dal treno: faceva caldo anche qui. Speravo che muovendomi verso nord il clima... Uscii dalla stazione e fermo al semaforo del viale guardai le poche macchine passare. Era la settimana di ferragosto e tutti erano andati al mare. Attraversai il viale e andai verso il centro. Cercai di non affrettare giudizi, non avevo ancora visto niente. Ripensando alle parole di Linda: era proprio squadrata e rigida ‘sta città. Chissà se Linda era ancora a Torino... L’avrei incontrata magari in un bar, mentre beveva un’aranciata. Beveva sempre aranciate. Le dicevo: “diventerai un’arancia”. Mi rispondeva prendendomi a morsi le guance. Non sarebbe male incontrarla... mentre passeggia con il cane magari... o mentre passeggia con il fidanzato. Sarebbe stato meglio non incontrarla. Ma infondo a chi la voglio raccontare? Non ero forse venuto per incontrarla? Il suo fantasma quantomeno. Mi stancai di quella città ed entrai in un bar. Linda non c’era. Ordinai un’aranciata, anzi: una birra. “Come la vuole?” mi chiese la ragazza al bancone. “Come la vorrò” risposi togliendomi il cappello e scoprendo la calvizie “una birra!” Ero un po’ teso. Poi faceva caldo. Torino mi sembrava una gran bell’idea del cazzo. Non potevo passare la domenica nelle solite biblioteche? Una puntura di Francia mescolata alla periferia fiorentina: Torino. Certo i viali alberati erano belli, ma quella roba da Unità d’Italia... Altro che New York, Pavese costì! Tornai a camminare sotto al sole. Torino mi sembrava una brava persona, però niente di speciale. Erano noiose le brave persone, con tutto quel verde e la zona pedonale e la pista ciclabile. Pensai a Pavese, romanzo La Spiaggia, ambientato in Liguria se non sbaglio, dove l’autore andava al mare, come molti piemontesi immagino. Pensai di andare a visitare l’albergo dove si è suicidato. Macché!, che cattivo gusto... eppure, non avevo altre mete. Del museo Egizio non me ne fregava niente e tanto meno del resto! Sarei dovuto rimanermene a casa, ma almeno ho visto Torino, non va bene forse? Mi sono scontrato con la realtà, che dire? Preferivo la cartolina. Passai il resto del pomeriggio in un parco a leggere. Mi accoccolai sotto l’ombra di un bell’albero di cui non saprei dirvi il nome (perché di alberi non ne capisco) e scivolai piano piano nell’utero di Dos Passos. Pavese l’avrà letto? Sicuramente, se non lui, voglio dire: l’uomo che ha portato la letteratura americana in Italia. Avrei potuto visitare l’Einaudi dove lavorava... Ero stanco, si faceva sera, ancora chiaro il cielo ma tra un’ora... No, mi dissi, domani, ora è meglio che vada a cercarmi una pensione se non voglio dormire nel parco, dato che nel libro non posso proprio coricarmi. La signora che gestiva la pensione parlava che non si capiva niente. “Come?” le dicevo istupidito. L’ipotetico marito, un uomo in canottiera tutto bruciato dal sole, aveva una pelle da tacchino che gli pendeva disperata sotto al mento. Il letto sembrava pulito. Mi affacciai alla finestra che dava sul viale, aspirai un po’ d’“aria”. La vita è bella a modo suo, quando non si cerca di imporsi in essa ma la si lascia fare come crede. Faccia di noi quel che vuole, tanto va tutto verso foce. Feci un bagno. Poi infilai la giacca, presi il cappello, il libro e uscii. Non facevo che uscire, ma non andavo da nessuna parte. Ero un Torinese ormai, riconoscevo persino le strade. Non avrei potuto lasciare il libro alla pensione? Purtroppo avevo sviluppato una tale mania che i libri me li portavo ovunque, non si sa mai, pensavo: metti all’appuntamento tal dei tali arriva con un po’ di ritardo, che fai?, guardi la vita scomparire? E poi non avevo altri se non Dos Passos. Avrei certo preferito sedermi in qualche birrificio a conversare con lui in persona... parlare di Parigi, Parigi in quegli anni ‘20 di cui lessi fino a credere di esserci. Oppure New York, magari dei suoi libri, i suoi innumerevoli libri. Quarantadue romanzi? Epperò! Io ne ho scritto uno ed era meglio se non l’avessi riletto. Ma sopratutto avremmo parlato dei tanti scrittori famosi che aveva conosciuto. Insomma, avrei pagato io da bere. Ma Dos Passos era morto e anch’io sarei morto e tutti saremmo morti e quanto di più profondo riuscivo a vedere nella vita era proprio la morte e non facevo che pensare a morire, mentre vivevo, e quanto mi uccideva questo pensiero... Cosa avrebbe detto mia madre? “Giovanni ci sei stasera a cena?” “No mamma.” Piccola e gobba di già ottantenne: non avrei dovuto darle dispiaceri. Certo era preoccupata perché non mi sono sposato. Linda mi ha lasciato. Capita, le dissi. “Mamma succede, i tempi sono cambiati, oggi è diverso.” Ma diverso cosa? Cosa ci vuole per fare della buona letteratura? mi sono chiesto innumerevoli volte. Di risposte ne ho date tante, ne ho lette ancora di più ma continuo a non saperlo. “Per fare buona letteratura ci vogliono pessimi letterati.” direbbe qualcuno, uno che fa fatica con la grammatica magari. Il locale si chiamava La Pantegana. C’era uno dietro il bancone, ve lo avrei fatto vedere, peggio di una barzelletta. Ordinai roba forte, la vuotai in un sorso. Dos Passos mi scivolò dal sotto braccio e imprecai perché imprecare mi faceva star meglio: “Ma porca...” Ne ordinai un altro, mi sedetti vicino a una bionda, veniva dall’America. “E dove precisamente?” chiesi nel peggiore inglese possibile. “Neou-Iorc.” Le mostrai il mio libro: non lo aveva letto ma ne parve entusiasta. Forse se l’avesse letto... No... mi dissi una mattina nello specchio, non andrò mai in America. E perché?, mi chiese il tipo nello specchio. Perché ho paura che una volta lì non mi piaccia. Infondo a me non piace l’America, cosa ne so io dell’America?, non ci sono mai stato! A me piace l’idea che ho dell’America, sono affezionato alle mie fantasie, a quei romanzi che hanno scosso e percosso la mia adolescenza. Al diavolo l’America! Ed io di dov’ero?, chiese l’americana. “Florence.” dissi. “Fireeenze!” si mise a strillare quella. Si andò al suo albergo. Continuavo a pensare a Linda mentre si spogliava. Me ne andai nella notte mentre dormiva. Mi persi. Dormii su una panchina. Mi svegliò un agente di polizia. “Si è perso?” mi chiese. “Si.” risposi. Camminai un po’, mi sentivo sporco e mi faceva male l’uccello. Allora mi accorsi che non avevo il libro. Mi assalii il panico. John Dos Passos e il suo Manhattan Transfers che non avevo finito di leggere erano persi per sempre. Che l’avessi lasciato all’albergo dell’americana?, o nel locale? Probabilmente all’albergo, ma non avevo idea di come rintracciare né l’uno né l’altro. Era la prima volta che perdevo un libro. Tornai alla pensione e mi immersi nella vasca. Pulito e vestito a nuovo andai in una libreria per comprare un nuovo volume del medesimo romanzo. Stavo per pagare alla cassa quando mi accorsi che non potevo. È stupido, lo so. L’ho rimesso a posto e sono uscito. Odiavo Torino. Pranzai in una trattoria, ero apatico. Non mi importava nulla dell’americana. Era tutto un sogno, mi dissi, la vita è un sogno. “Il conto Signore?” mi chiese il cameriere. Volli illuminare anche lui, sembrava un bravo ragazzo. “La vita è un sogno.” gli dissi. “Va bene Signore” sorrise “desidera altro?” “Il conto prego.” John Dos Passos: via. Feci un pisolino nel parco e poi me ne andai alla pensione. Mi feci la cravatta davanti allo specchio, chissà perché. Chiusa la valigia uscii. “Ci lascia di già il signore?” chiese la vecchia. Pagai e me andai verso la stazione. Mentre camminavo d’un tratto mi ci ritrovai davanti: HOTEL ROMA. C’ero passato almeno quattro volte, dato che la pensione era dietro la stazione e dovevo attraversare il viale per andare verso il centro. Guardai immobile con la mia stupida cravatta e la valigia in mano quell’edificio. “Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l’ho bruciata da una parte sola e la cenere sono i libri che ho scritto...” Entrai. Una giovane receptionist mi sorrise chiedendomi: “Posso esserle d’aiuto?” Mi guardai attorno. Ma che scemenza! “No” risposi “mi scusi.” e uscii. Cosa importa dove uno è morto? Importa dove ha vissuto! Le strade dove ha camminato, i Café dove si è seduto... Questa dannata ossessione per la morte! Alla stazione continuai a maledirmi. Camminavo nervoso e pensavo: “molto meglio andare a vedere la sede Einaudi... oppure...” Mi fermai improvvisamente. Comprai un biglietto per Santo Stefano Belbo. “...Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone principale dove giocavo da bambino. Siccome – ripeto – sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti “Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là.” Di Cesare Pavese si dice che sia un neorealista, cioè uno che spietatamente con i termini del realismo ha denunciato, ritratto, la realtà che lo circondava. I suoi libri sono documenti: è vero. Ma io ci ho sempre incontrato molta epica. Un suo suonatore di chitarra è tutti i suonatori di chitarra, nel suo essere qualsiasi. Aveva imparato dall’America la lezione del vago, dell’astratto, eppure dell’assoluto, e quanta precisione per delimitare l’astrattezza... Alba. Qua c’era da scendere e continuare con l’autobus: la città di Beppe Fenoglio. Un uomo che ha scritto quasi esclusivamente della lotta partigiana. Lo ricordavano come uno nervoso, introverso, timido, gran fumatore di sigarette: “Un omone non brutto” disse una signora in un documentario “ma certo non bello.” Non mi interessava: la sua fisicità è una questione privata. Il sole batteva forte e faceva caldo nell’autobus. Avevo fame. “Quanto c’è per Santo Stefano Belbo?” chiesi all’autista. “No” rispose lui “Lei deve scendere a Castagnole Lanze, tra meno di mezz’ora ci siamo, e da lì cambia autobus verso Alessandria per Santo Stefano. Tra un’oretta è arrivato.” “Grazie.” Guardavo dal finestrino quella terra diversa, eppure a suo modo così simile alla Toscana dov’ero cresciuto. Tutto è diverso e si somiglia. Avevo fame ed ero stanco, ma non annoiato, e questo era importante. Scesi a Castagnole Lanze e cambiai autobus per Alessandria. Poi finalmente arrivai: SANTO STEFANO BELBO. Il caldo era asfissiante. Camminavo per le strade vuote di un paese spopolato nel mezzo d’agosto. Ovviamente tutto era chiuso e non c’era neanche un bar dove chiedere un bicchier d’acqua. Ora muoio, mi son detto. Venuto fin qui come un profeta nel deserto per crepare. Come un’oasi, un miraggio: un bar non serrato. “Buongiorno.” salutai. “Oh!” Domandai la cortesia di un bicchier d’acqua e mangiai i due tramezzini rinsecchiti che si decomponevano in vetrina. Il tipo disse che erano freschi di stamani. Saran stati lì da quando è morto Pavese: 1950. Finito di mangiare e ripresomi un poco dal caldo, domandai dove si trovava la casa di Cesare Pavese. “Prende quella strada là, vede?” indicava qualcosa oltre la vetrata del bar “e va tutto a dritto.” La strada per Canelli era proprio “quella strada là”. Di lei non si poteva dire nient’altro. Neanche Pavese ne avrebbe potuto dire meglio. Mi sembrava di sentirlo mentre camminavo, ma può darsi delirassi per il caldo: “Quell’odore di vinacce, arietta di Belbo e vermut.” Ero sudato dai pochi capelli ai piedi nei calzini diventati umidi. La mia camicia non era più una camicia. E poi, finalmente, eccola lì: rosa ed elegante, in mia attesa. QUI NACQUE CESARE PAVESE “LA MIA PARTE PUBBLICA L’HO FATTA – CIO’ CHE POTEVO. HO LAVORATO, HO DATO POESIA AGLI UOMINI, HO CONDIVISO LE PENE DI MOLTI.” (C. PAVESE) LA GENTE DELLA SUA TERRA Era chiusa: feriae Augusti d’altronde. Anche i fantasmi vanno al mare. Rimasi lì, davanti al cancello ad osservarla. Il cortile interno dove forse aveva giocato da bambino... Allentai la cravatta, afferrai la valigia e tornai in paese. “Ha trovato la casa?” mi chiese l’omone dietro al banco del solito bar. “Sì, ma era chiusa.” “E certo! Cosa s’aspettava? È la settimana di ferragosto: solo io sono aperto.” “E non poteva dirmelo prima?” chiesi infastidito. “Perché?” fece lui mentre mi versava un liquore “avrebbe cambiato qualcosa?” Presi il bicchiere e brindai contro al suo. “Immagino di no.” dissi. L’omone sbatté il bicchiere vuotato sul bancone. “Accidenti!” dissi facendomi rosso “è forte. Cos’è?” “Questo si trova solo a Santo Stefano.” disse lui versando ancora. “Buono.” Lui bevve e disse: “Li conosco quelli come Lei.” Lo guardai curioso. “Ogni tanto vengono. Stesse domande, stesse facce.” Sorrisi. “Alla sua!” gli dissi alzando il bicchiere. “Alla sua buon diavolo!” Dormii su un tavolo del bar. Il mattino dopo strinsi la mano all’omone e me ne andai. L’autobus si fece desiderare. Arrivò che ero una pozza di sudore. Ad Alba presi il treno, poi di nuovo Torino. Pensai che avevo mancato la Collina Gavinella, quella che Pavese aveva descritto come “un pianeta”. Che belle parole... bello saperle usare. Ma non importava, no, non avevo voglia di andare su nessun altro pianeta; mi bastava questo. Aspettando il treno per Firenze alla stazione di Torino, pensai di chiamare mia madre. “Pronto mamma?” dissi al ricevitore di una cabina nella stazione: c’era un certo baccano attorno. “Pronto?” “Mamma” dissi ancora “sono io, Giovanni, mi senti?” “Ma chi è?” “Sono Giovanni!” alzai la voce “mamma come stai?” “Vanni?” “Giovanni!” gridai “tuo figlio! Mamma come stai?” “Giovanni!” disse lei “ma dove ti sei cacciato? Torni a cena stasera?” “Mamma sono venuto a trovare un amico a Torino” dissi “sto tornando ora a Firenze, sì, stasera sono a cena a casa.” “Bene. Allora faccio la trippa.” “Va bene mamma. Come stai?” “Eh?” “Stai bene?, dico, fa caldo a Firenze?” “Caldo sì.” “Sai mamma” provai a dire “sono un po’ stanco.” “A che ora arrivi? Per quando preparo la trippa?” “Quando vuoi, non importa.” provai ancora “mamma sono infelice.” “Giovanni la preparo per le sette, ci sei per le sette?” “Sì mamma, ci sono per le sette.” “Allora a dopo!” “Va bene mamma.” esitai un attimo “ti voglio bene, sai?” Riattaccò. Rimasi col ricevitore in mano per un momento ancora... Quando arrivò il treno quasi mi dispiacque andarmene. A cosa tornavo? Salii sul vagone come se salissi su un carro funebre. Mi sistemai vicino al finestrino. Poi una voce di donna mi chiese se il posto davanti al mio era libero. Tommaso Dati
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Maurizio Oliviero, Francesco Panizzo. |
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Saggio breve di Daniele Vergni |
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