Scriveva Natalia Ginzburg, riferendosi alla scrittura: «questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lacrime e stringere i denti e asciugare il sangue delle nostre ferite e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede. Allora anche ci aiuta a stare in piedi, a tenere i piedi ben fermi sulla terra, ci aiuta a vincere la follia e il delirio, la disperazione e la febbre. Ma vuol essere lui a comandare e si rifiuta di darci retta quando abbiamo bisogno di lui.»[1]
Questa affermazione, piuttosto forte, letta per caso in macchina aspettando il verde al semaforo, mi ha suscitato una serie di riflessioni sulla mia attività preferita (non dico mestiere, in quanto non mi dà di che vivere): scrivere. Dirò innanzitutto che io la vedo in maniera praticamente opposta rispetto alla Ginzburg: per me l’atto di scrivere non è accompagnato da sofferenza, bensì da gioia, e non mi toglie energie, anzi me le dona. D’altra parte come potrebbe un anarchico come me accettare un padrone, per lo più autoimposto? Io scrivo cosa e quando voglio, seguendo l’ispirazione del momento (a meno che non si tratti di articoli o recensioni promesse a qualcuno) e questo è uno degli indubbi vantaggi di uno scrittore “non professionista” rispetto a chi è sotto contratto con la Mondadori o la Newton & Compton e deve magari consegnare un romanzo di quattrocento pagine entro due mesi, pena la perdita di denaro (molto denaro). Non a caso Paolo Cammilli[2] si dichiara d’accordo con la Ginzburg: il suo è infatti il punto di vista di uno scrittore professionista. Cammilli, anzi, distingue tra chi “fa lo scrittore” e chi “è uno scrittore”, indicando nel primo colui che si guadagna il pane attraverso il suo mestiere.[3] Dello stesso avviso è il giornalista pratese Raimondo Preti. In Tutti giù per terra scrive: «Chiariamo subito una cosa: scrivere non è un piacere. Non si tratta di cantare con una bella voce o di imbrattare una tela sperando che qualcuno dica che è un capolavoro. Scrivere è un gioco di capelli strappati, sigarette che bruciano fino al dito e unghie ciancicate.»[4] Di «lotta orribile ed estenuante, come un periodo di dolorosa malattia» parla anche George Orwell in un suo saggio del 1936[5]; il celebre scrittore inglese si riferisce in più punti alla «fatica di scrivere»[6], allo «sforzo descrittivo quasi contro la mia volontà, come una sorta di costrizione esterna»[7], eccetera, a cui lo scrittore è spinto da «egoismo», «entusiasmo estetico», «impulso storico» e «scopo politico»: quattro ragioni per scrivere che sono presenti, a suo dire, in ogni scrittore, pur se in proporzioni diverse, e che rispondono alla logica domanda “Ma allora chi glielo fa fare?”.[8] Come tutte le cose che all’inizio si fanno per passione, inevitabilmente (pare) anche la scrittura “dilettantistica” quando diventa “professionale” – qualcuno direbbe “quando si fa sul serio” – muta la propria natura trasformandosi da “piacere” in “dovere”. Non essendo mai stato uno scrittore di professione – scrittore sì, ma solo per passione – non mi azzardo a fare un confronto tra i due approcci al foglio bianco… posso solo dire che, dal mio punto di vista, la scrittura è godimento e soprattutto libertà; anzi è l’azione più libera che uno scrittore può fare. Scrivendo rompo le catene della realtà – forse anche per questo prediligo il genere fantastico – creo sulla carta mondi utopici, decido la sorte dei personaggi a cui do vita (come una sorta di divinità), elaboro trame e supero col pensiero e la fantasia i miei limiti geografici e temporali. Mi trovo insomma d’accordo con l’amico e collega Carlo Menzinger[9], il quale rifiuta perfino la definizione di “mestiere” applicato alla scrittura e replica: «Scrivere un mestiere? Dio no, no!!! Scrivere è un sogno. Scrivere è un gioco. Scrivere è creare mondi nuovi. Scrivere è essere Dei! Cosa c’entra il mestiere? Quello è per falegnami, avvocati, medici e idraulici. Però scrivere non è facile, né cosa lieve. Scrivere è tecnica e metodo e cultura e infinite letture.»[10] Infatti non bisogna pensare che la scrittura non segua delle sue regole – in primis quella della coerenza interna e della verosimiglianza – se vuol essere efficace, e che non ci sia dietro un lavoro preparatorio fatto di ricerca e di letture. Ammetto che documentarsi per scrivere un libro può essere faticoso e a volte frustrante (anche se Internet ha facilitato molto le cose), ma lo scrivere in sé estremamente liberatorio. Il processo della scrittura, come giustamente nota Menzinger, è per molti aspetti affine al sogno[11]: la differenza sta nel fatto che il sogno non contiene nessuna logica (se non forse quella che vi scorgeva Freud[12]) mentre un buon romanzo o un buon racconto risponde a una logica ferrea, pena l’infrangersi della “sospensione dell’incredulità”. Personalmente infatti per le mie storie ho tratto ispirazione dai sogni in più occasioni, rielaborandoli e piegandoli alla scrittura. Tornando alla Ginzburg, credo piuttosto che sia lo scrittore il padrone e la scrittura l’umile serva – e non il contrario. Ho sentito comunque altre voci di amici e colleghi scrittori. Marco Bazzato[13], ad esempio, si dichiara concorde in parte con la Ginzburg, «visto che quando il demone di una storia reclama di uscire, alla fine è lui che conduce il gioco, noi siamo solo i veicoli della storia, non ne siamo gli effettivi signori e padroni. Questo almeno vale per me, sia quando scrivo, così come quando rileggo per correggere o per revisionare. È la storia stessa che dice in che direzione vuole andare, cosa vuole e cosa soprattutto non vuol fare. È una vita, una serie di vite, dentro lo scrittore, vite che emergono, vengono concepite, crescono nel ventre della nostra mente e poi sono espulse, a volte in modo anche doloroso, come un parto, dove sia la gestazione che l’espulsione a differenza di una gravidanza umana, non dura necessariamente nove mesi, ma può essere più breve o più lunga, così come il travaglio, prima della nascita, del termine ufficioso della gravidanza stessa, perché poi un libro inizia a vivere solamente quando l’opera diviene di dominio pubblico. Lì, allora inizia il suo percorso di vita. Percorso che potrebbe essere brevissimo oppure durare anche per secoli. Facendo però una ricerca etimologica del termine mestiere, tra i diversi significati, ho trovato che questa potrebbe essere la più calzante, se vogliamo associarla a ciò che la scrittrice forse intendeva: “dal fr. ant. mestier (mod. métier), che è dal lat. ministerĭu(m) ‘ministero, ufficio’, deriv. diminĭster ‘ministro, servo’.” Se naturalmente vogliamo escludere la componente economica, legata al termine più comune di svolgere un mestiere, per trarne principalmente un tornaconto economico. Quindi, la scrittrice poteva anche voler intendere una forma di servizio, essere servi del proprio bisogno, del proprio piacere interiore, della propria passione, dell’amore che si prova per la scrittura e anche per gli sforzi che, coloro che sono abituati a farlo, non sentono, ma che richiedono dispendi di energie intellettuali e fisiche, in certi momenti non indifferenti. Stephen King, autore che forse a molti può non piacere, disse grosso modo che, ora non ho il libro sottomano, che tutti coloro che scrivono sono scrittori, indipendentemente dal fatto che ne traggano un ricavo economico, ma qualsiasi persona che ha qualcosa da dire e soprattutto lo sa dire, può e deve considerarsi uno scrittore. […] Il processo creativo credo che sia un mistero per tutti, dove ci nascondiamo dietro diverse definizioni, ma la scintilla, l’input che abbiamo nel metterci innanzi a un foglio word bianco e lasciare uscire le lettere, le parole, le frasi, per arrivare alla fine del percorso, mettendo il punto finale, rimarrà forse l’ultima frontiera, probabilmente per sempre inesplorata, perché, per quanto magari lo vogliamo, non possiamo essere contemporaneamente dentro e fuori noi stessi, senza mai poter avere una vera visione di insieme, ma forse è anche questo l’aspetto migliore, in quanto potrebbe essere una scoperta e una riscoperta quotidiana che si rinnova di volta in volta.»[14] Scrive d’altro canto Michele Protopapas[15]: «Io pianifico tutto. La storia, prima di essere scritta è stata domata (altro che mostro, è docile come un gattino): scelgo quali tecniche e quali trucchi usare, determino numero di personaggi e definiscono come devono interagire. Solo dopo che è stata pianificata, riassunta in scaletta, confezionata mentalmente, inizio a scrivere. E da lì è tutto in discesa.»[16] La poetessa Mariella Bettarini è intervenuta nella discussione replicandomi che «se si scrive essendo felici, allora si è felici di scrivere. Se si è infelici, la scrittura allevia molto l’infelicità, e tuttavia non sappiamo se è la scrittura a farci stare meglio, o è il nostro stare meglio che ci permette di scrivere.»[17] Su questo non so rispondere, comunque mi pare una domanda interessante, così come mi pare degna di nota la definizione che fornisce Alessandro Franci nella sua citazione: «“Scrivere è tentare di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse” dice M. Duras[18]. Lo consiglio. D’altronde Rilke scrive al signor Kappus: “Ricordate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell’ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso di affrontare questa grave domanda con un forte e semplice ‘debbo’, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.”[19]»[20] È interessante anche la definizione di Marco Di Bari, scrittore fiorentino: «La scrittura è una risorsa per il buio, il dubbio, la troppa gioia, l'illuminazione. Però ti allontana dalle persone reali, dal tangibile e dal restituire emozioni dirette. La scrittura parla di una vita ma rischia di confondersi con la vita stessa, senza esserlo.»[21] Mi viene in mente a tal riguardo Pirandello quando affermava che «la vita o si scrive o la si vive; io non l’ho mai vissuta, se non scrivendola.»[22] Con quest’aforisma d’autore, che penso possa mettere d’accordo un po’ tutti, chiudo questo breve articolo su un argomento su cui non si finirà mai di discutere, spesso scontrandoci, ma che continua ad appassionare generazioni di scrittori in cerca di una propria identità e di una ragione per spiegare a se stessi e agli altri perché si mettono davanti a un foglio bianco (sia esso cartaceo o elettronico) per riempirlo di parole, invece di occuparsi di attività più redditizie dal punto di vista economico. Massimo Acciai Baggiani
Note:
[1] N. Ginzburg, Le piccole virtù, Einaudi, Torino 1993, p. 88. [2] Direttore di Porto Seguro Editore e autore di bestseller quali Maledetta primavera (Newton & Compton, 2014), Io non sarò come voi (Sperling & Kupfer, 2015) e Conta fino a dieci (Sperling & Kupfer, 2017). [3] Io ho dato una definizione diversa nel mio articolo Chi è davvero uno scrittore? Ovvero: poniamo che nessuno compri più libri…, Sìlarus, n. 274, marzo-aprile 2011. [4] R. Preti, Tutti giù per terra, Porto Seguro, Firenze 2019, p. 157. [5] G. Orwell, Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, Milano 1996, p. 105. [6] G. Orwell, op. cit., p. 104. [7] Ivi, p. 99. [8] Ivi, pp. 100-101. [9] Autore fiorentino di cui ho scritto la biografia letteraria: M. Acciai Baggiani, Il sognatore divergente, Porto Seguro, Firenze 2018. [10] Questa come altre testimonianze che seguono sono tratte da una conversazione sulla mia bacheca di Facebook, in data 19 marzo 2019 e giorni seguenti. [11] Come sostengo anche nell’intervista che Menzinger mi ha fatto nel suo saggio su di me: C. Menzinger di Preussenthal, Il narratore di Rifredi, Porto Seguro, Firenze 2019. [12] Ne L’interpretazione dei sogni (1900). [13] Scrittore italiano trapiantato in Bulgaria, vedi http://marco-bazzato.blogspot.com/ [14] Vedi nota 10. [15] «Classe 1980, palermitano d’origine greca, residente a Prato, laurea in Ingegneria Aerospaziale, insegnante di scrittura, matematica e scienze» M. Acciai Baggiani, I racconti di Michele Protopapas, tra horror e fantascienza, Passparnous n. 62, aprile 2018. [16] Vedi nota 10. [17] Vedi nota 10. [18] M. Duras, Scrivere, Milano, Feltrinelli 1994. [19] M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. [20] Vedi nota 10. [21] Vedi nota 10. [22] L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal. Bibliografia
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Tra molti fiori selvaggi
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