In occasione della Giornata Mondiale della Poesia, il 21 marzo c. a., presso il Museo Vittoria Colonna di Pescara, si è svolta la premiazione dei vincitori della seconda edizione del Concorso Nazionale SINESTETICA, organizzato dal Comune di Pescara e dall’Associazione MIRA. La sala era stracolma di ragazzi, ai quali questo Concorso dà l’opportunità di partecipare nelle due categorie a loro riservate. Nel corso della cerimonia, il poeta, e pregevole critico, Loretto Rafanelli, presidente delle due distaccate giurie per la poesia inedita e la videopoesia, ha conferito a Jean Portante, poeta e scrittore di fama internazionale, il Premio di Poesia “Città di Pescara - Sinestetica“ 2019. Nel ringraziare, commosso, per il riconoscimento avuto proprio “nella parte di mondo dell’origine”, Jean Portante ha donato, a tutti i presenti, riflessioni, impastate d’autobiografia, sull’emigrazione degli esseri viventi, sulla lingua di scrittura d’un letterato migrante e sulla frontiera poetica che attraversa la letteratura oggi, e l’arte in generale. Il giorno a seguire, il 22 marzo, tanto è stato il desiderio di tornare ad ascoltare la sua voce, pacata e serena, e la luce che fluisce dai suoi occhi, limpidi e audaci come i suoi versi. In un salottino appartato sul palco, dove, in penombra, dei poeti, Portante e Rafanelli, era illuminato il volto e accennata la figura, da singole luci tenui, si riversava su di noi una sensazione di piacevolezza, d’alta umanità. Musica ricercata e videofondali, sapientemente montati da Luigi Colagreco, direttore artistico di Sinestetica, e Alessandro Battista, accompagnavano la recitazione dei poeti di alcune delle loro poesie, impietrate come gioielli nella sala, semivuota questa volta, quasi per pochi intimi, o amanti della poesia.
. . Vedevo bene che strappavano tutto intorno a me. . Strappavano il Sud e strappavano il Nord ma non ne buttavano niente. . Strappavano tutto ma non ne buttavano niente. . Ma quando si sono messi a strappare il sole ed era chiaro che non si sarebbero bruciati e quando poi hanno strappato il cipresso senza che una goccia di tempo fosse versata non c’era più alcun dubbio. . È affinché tutto rimanesse intero che strappavano. . È perché strappavano che tutto rimaneva intero. . J. Portante, da I quattro tremori del giardino . . Sull’acqua . L’odore dell’acqua è un labirinto, nel suo fiato di rose, con la forma precisa come una curva che parla di noi, come una misura del mondo, che è respiro, è ferro, è malta, è albero. . […] . Il mare è un destino, il mare è un’onda di marmo dove a volte si lascia il respiro, e passa una ferita profonda nel piano inclinato di mille cuori, nel freddo lume arido di abbracci. . L. Rafanelli, (inedito) . . “Jean Portante, che valore ha per lei questo riconoscimento letterario in Abruzzo, la terra d’origine della sua famiglia?” “Mi piace molto l’idea di un premio in Abruzzo, una parte del mondo che è parte di me, della mia origine. È una cosa molto commuovente. È la prima volta che ricevo un premio in Italia; in altri paesi me ne hanno dati un bel po’, però in Italia mai! E sono molto contento che sia proprio da queste parti, vicino al paese d’origine della mia famiglia, San Demetrio ne’ Vestini, vicino a L’Aquila terremotata. Il mio nonno paterno è partito da qui nel 1912, è andato a piedi fino a Lussemburgo. E quando è arrivato, gli hanno detto di no, è dovuto tornare indietro. Ha riprovato più volte e ce l’ha fatta finalmente a rimanere. Lì è nato mio padre, che, durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il Lussemburgo è stato annesso nel Terzo Reich, è stato costretto a tornare in Italia, con i giovani e i meno giovani italiani mandati dai tedeschi a combattere con Mussolini.” . “Lei pensa che la migrazione, oggi come ieri, sia un ineludibile tratto dei viventi?” “Ognuno, a un certo punto della sua esistenza, può essere nomade, migrante. Una volta tocca a uno, un’altra volta tocca all’altro; e chissà se, nei cent’anni che verranno, non toccherà di nuovo a noi andare via, non lo sappiamo. Anche per questo, io penso che sia brutto dire di no agli immigrati, dire “rimanete a casa vostra, rimanete sotto le bombe, rimanete dove avete fame”. Io so che i miei hanno avuto fame ed è per questo che sono partiti dall’Italia, E poi sono tante le cose che non vogliamo vedere di questi migranti, come ad esempio che, tra le migliaia di persone che vengono da noi, ci sono anche artisti, poeti, gente che fa cinema, scrittori, medici, architetti, che c’è un po’ di tutto.” . “Come vive l’ambigua avventura delle lingue un migrante che ama scrivere?” “La cosa è abbastanza complessa. La lingua che ho sempre avuto in tasca è l’italiano. A casa si parlava italiano, no neanche italiano, abruzzese, anzi (sorridendo) per essere precisi il sandemetrano. A Lussemburgo, ci si imbatte in ben tre lingue, contemporaneamente presenti nel suo territorio: il tedesco, che è la lingua della scuola, il francese, che viene subito dopo, e poi il lussemburghese, una lingua molto antica, la lingua di Carlo Magno. Tra l’altro, a me è accaduto anche che, nel 1955, quando avevo cinque anni, mia madre ha detto che non ce la faceva più a restare a Lussemburgo e siamo tornati in Italia. Ho vissuto così due anni a San Demetrio, gli anni della mia prima scolarizzazione. Nel ‘57 è stato poi mio padre a dire che non ce la faceva più a restare in Italia e siamo ritornati. E quando si arriva a Lussemburgo con la quarta lingua, può essere una cosa straordinaria o terribile. Per qualsiasi mestiere è una cosa straordinaria poter parlare quattro lingue, per lo scrittore no.” . “In quale lingua ha scelto di scrivere quando la sua vocazione letteraria è emersa?” “È stato a L’Avana, nell’Isola di Cuba, davanti all’oceano che ho avuto l’immagine chiara di cosa poteva essere la mia scrittura: una scrittura balena. Davanti a quella immensa distesa d’acqua ho pensato a un animale che era nella mia memoria: una balena appunto, che nel 1953 era arrivata a Lussemburgo, quando io avevo solo tre anni. Non so se l’ho vista, perché la memoria di tre anni non so se ce l’abbiamo ancora. Era arrivata come un’attrazione da circo, all’epoca non c’era la televisione, e andare a vedere una balena era una cosa straordinaria. Si chiamava Mrs Haroy, perché l’avevano pescata e ammazzata a Capo Haroy, vicino alla Finlandia. Questa balena, depositata nel mio immaginario, mi ha dato molto, mi ha ridetto chi ero, perché anche lei, come me, è una migrante. Infatti, essa non è un pesce, ha vissuto molti anni, secoli, millenni, sulla Terra, da mammifero. Gli studiosi dicono che probabilmente era un enorme cane, che, a un certo momento della sua storia, ha deciso di andarsene e si è spostata nell’acqua. Dunque è una delle prime migranti della storia della vita e quando è arrivata nell’acqua ha fatto quello che fa ogni migrante: si è adattata, ha cercato di diventare come un pesce. Ha visto come erano gli altri intorno, e si è trasformata a poco a poco, come si trasformano i migranti. Ha fatto bene ad andarsene, perché se fosse rimasta non esisterebbe più, come tutti i grandi animali di allora, che sono scomparsi. L’unico rimasto è lei, la balena. Dunque è come un’urgenza quella di andarsene; la migrazione è anche questo.” . “Jean, può illustrare come il comportamento migrante della balena possa essere la straordinaria metafora della sua lingua di scrittura?” “Nella sua trasformazione, la balena è andata molto lontano, ma una cosa non l’ha cambiata: è rimasta con il suo polmone. E questa è una storia molto bella, e brutta allo stesso tempo, perché è proprio il polmone che non le permette di vivere nell’acqua. Il polmone è un organo della terra, non dell’acqua; è per questo che vediamo la balena che viene a galla a respirare. Io mi sono chiesto perché ha tolto tutto, è diventata come un pesce, ed è rimasta con il polmone. E la risposta che mi sono dato è che forse voleva mantenere in sé la memoria della terra di prima. Questo pensiero mi ha dato molto. Mi ha suggerito qual è la memoria mia, di prima. La lingua madre! E dunque ho fatto come lei, ho preso la lingua madre che è l’italiano e l’ho messa come un polmone dentro la lingua che ho scelto per la scrittura, che è la lingua francese. Non posso dire che scrivo in francese, ma non posso neanche dire che scrivo in italiano. Scrivere in lingua balena significa che sto con una lingua che è come se fosse il francese, come la balena vive come se fosse un pesce.” Ti riporto un esempio concreto. Nelle mie poesie, ma anche nei miei romanzi, compare spesso uno strumento autobiografico, che è la pala. La mia famiglia lavorava la terra in Italia, e dopo, quando sono andati a lavorare nelle gallerie, sempre con la pala hanno continuato a lavorare. E dunque è diventata una parola molto importante per me. In francese la parola per dire ‘pala’ è ‘pelle’. Io, ogni volta che scrivo quella parola, ‘p-e-l-l-e’, ci metto la parola italiana dentro, che è ‘la pelle’. Ogni volta che parlo di pala sto parlando anche di pelle, questo è il polmone che è dentro la pala: la pelle. In questo caso ciò mi fa dire in una sola parola d’una tragedia della nostra famiglia, nel 1932 mio nonno paterno è morto nelle gallerie: ha lasciato la pelle lavorando con la pala. Tutto quello che starà quindi nella mia poesia intorno alla parola ‘pala’, avrà a che vedere anche con la pelle.” . “La scrittura in lingua balena apre quindi un nuovo spazio letterario di frontiera?” “La mia scrittura apre un territorio, perché non è più una cosa e non è ancora un’altra. E dentro questo territorio c’è tutta un’epoca, la nostra. Noi siamo arrivati a un punto in cui certe cose sono già sparite e le altre non sono ancora arrivate. Questo territorio dà alla letteratura e all’arte molte possibilità. Tutta la mia scrittura, sia nei romanzi sia nella poesia, entra in questo territorio enorme, dove c’è il non più e il non ancora. La mia lingua non è più la lingua italiana e non è ancora veramente la lingua francese. Quando la balena avrà, e forse lo farà, fra qualche milione di anni, se la lasciano vivere fino ad allora, perché non sappiamo quello che stanno facendo del pianeta. penso che anche questo polmone se ne andrà e la balena diventerà un animale completamente marittimo. Ma per il momento sta in una specie di territorio che è tra le cose. In questo spazio ambiguo io ho messo tutta la mia scrittura, in uno spazio di frontiera. Infatti, la frontiera non è già più il posto che uno lascia e non è ancora il posto verso il quale uno va. E preferisco le frontiere ai confini. Il senso del confine è di chiudere qualche cosa, quello della frontiera di far fronte, di aprire qualcosa. Questo viaggio, che va dalla cosa che è già finita a quella che ancora non c’è, è il mio viaggio.” Natalia Anzalone
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