Ho conosciuto Michele al Sit’n’breakfast, un piccolo e pittoresco bar-libreria nel centro di Firenze[1], un pomeriggio estivo: era seduto a un tavolino nel cortiletto, sotto l’ombrellone. Stava parlando a un paio di ragazze del suo corso di scrittura, che avrebbe tenuto come insegnante, in quel locale. Il corso mi aveva incuriosito, così mi sedetti anch’io al tavolo – dietro suo invito – e mi unii alla conversazione.
Classe 1980, palermitano d’origine greca, residente a Prato, laurea in Ingegneria Aerospaziale, insegnante di scrittura, matematica e scienze (il rigore scientifico è infatti evidente nelle sue opere): ha pubblicato al momento tre volumi “in solitaria” oltre a molti racconti sparsi su antologie. Solo racconti. Niente romanzi o poesie. Ho avuto modo poi di leggere un suo testo pubblicato nell’antologia di una passata edizione del corso[2] e subito ho sentito un’affinità artistica, ho capito che era un autore da approfondire. Ho avuto questa occasione di recente, trovando un paio di suoi libri nello scaffale del libero scambio della già ricordata libreria, dove tiene i suoi corsi. Li ho presi e la lettura mi ha subito rapito, tanto che li ho finiti in un paio di giorni e uno me lo sono poi fatto prontamente autografare dall’autore, il quale mi ha voluto regalare anche un altro suo libro, Seventeen, di tutt’altro genere: uscito nel 2017, come suggerisce il sottotitolo (17 storie senza eroi di ordinaria meschinità) raccoglie diciassette racconti ispirati ai dieci comandamenti più i sette peccati capitali, prende la religione a pretesto per trattare di tematiche sociali ed è un vero pugno nello stomaco, perfino eccessivo per un lettore come me.[3] Il primo libro in questione invece è uscito nel 2013 ed è l’opera di esordio di Michele Protopapas: I racconti del Behcet. Il titolo fa riferimento alla malattia rara di cui soffre che, come racconta lo stesso autore nella premessa, ha fatto sì che si dedicasse alla scrittura. Si compone di sette racconti di genere fantastico, tra l’horror e la fantascienza. Lo stile è avvincente, semplice, piano, senza fronzoli ma non piatto o banale; si sente lo stile dello scrittore, i personaggi sono vivi, tridimensionali. Nel primo racconto, dopo un inizio “normale” (una donna d’affari deve tornare a Parigi dalla Polonia per una riunione di lavoro) siamo presto catapultati dapprima in un’atmosfera inquietante (la strana agenzia di viaggi dove la protagonista riesce a trovare un biglietto per il treno, con un criptico riferimento alla trappola del ragno) e successivamente in una vicenda da Ai confini della realtà, con la povera Sylvie prigioniera in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo, in un incubo senza via d’uscita con la compagnia di altri viaggiatori sfortunati come lei, presi anch’essi nella trappola di un “ragno” avvolto nel mistero ma che intuiamo essere potentissimo e malvagio. Il crescendo di angoscia e di orrore è magistrale. Non meno raccapricciante, e in qualche modo legato al primo per la tematica dell’entità “superiore” che gioca con la vita degli umani, è il racconto successivo. Qui si parla di alieni che “coltivano” esseri umani su vari pianeti a scopo alimentare e periodicamente tornano per il macabro “raccolto”. Qui lo sterminio riguarda sì molta più gente che nel primo racconto, ma in compenso il metodo di uccisione è indolore e le vittime sono in qualche modo messe al corrente dei loro “diritti” riconosciuti da una lega aliena per «i diritti del bestiame». Una chiara favola nera animalista che non mi sento di condividere in toto ma che fa riflettere. Un altro racconto ha per protagonista e un tipo particolare di serial killer: ossessionato dai messaggi che inconsciamente trova nelle sue letture, è spinto a uccidere la vittima designata per far cessare questo supplizio. Si tratta per lo più di persone emarginate che in buona parte si meritano di morire; tutti tranne una, la sua ultima vittima mancata; una giovane prostituta che gli racconta la sua tragica vita, facendolo commuovere. Come va a finire non lo rivelerò, ma aspettatevi un finale sorprendente. Si parla poi di uno strano cristallo con cui è meglio non avere a che fare. I due racconti finali sono quelli più lunghi, più complessi e a mio parere anche più notevoli per i molti spunti di riflessione che offrono. La generatrice di mostri, recentemente rivisto profondamente (come gli altri racconti) in vista di una prossima ripubblicazione, è quasi un romanzo breve sotto forma di lettere, diari e appunti, di genere horror in cui si mescola superstizione, genetica ed esotismo, e ricorda per lo stile e la tematica i migliori racconti di H.P. Lovecraft. La vicenda si svolge in Siberia dove una misteriosa «Sposa di Satana» mette al mondo una prole mostruosa che fornisce materia di studio a un gruppo di scienziati sopra le righe; il lettore non può fare a meno di interrogarsi sul concetto di “mostro” e su chi sia il vero mostro.[4] Il racconto finale è il mio preferito, anche perché tratta tematiche che ho frequentato anch’io spesso nella mia scrittura: quella del viaggio nel tempo e dell’utopia futura. A differenza di Carlo Menzinger, scrittore ucronico e apocalittico su cui sto scrivendo un saggio, Protopapas ha una visione molto più ottimista. Nel 2140 gli Ambientalisti saranno arrivati al potere e avranno creato una società avanzata tecnologicamente ma al tempo stesso saggia e stabile. Sulla Terra regna il benessere e la giustizia sociale: non c’è più criminalità, non ci sono carestie, niente povertà, vengono premiati la curiosità scientifica e il pensiero, viene applicato un efficace controllo delle nascite, il sesso ha raggiunto la completa liberazione, tutti sono felici. Ma, conclude sconsolato il protagonista – giunto dal 2008 in seguito a un incidente con l’LHC[5] – questo paradiso non potrà durare: unica nota amara in un racconto altrimenti perfetto. Tra l’altro questa visione rosea del futuro dell’Umanità è presente anche in diversi miei racconti[6] e in un romanzo breve, ancora inedito, intitolato Lettere da uno strano mondo: a mio parere l’Uomo, oggi a un bivio, imboccherà la strada giusta e costruirà davvero in futuro un mondo oggi solo nella mente dei sognatori, e sarà a mio parere destinato a durare almeno fin quanto durerà la specie umana. Ci sarà un punto di non ritorno che l’Uomo dovrà raggiungere in un futuro che non saprei quantificare (ma che sicuramente non vedrò)[7]. La raccolta successiva, uscita due anni dopo con la stessa casa editrice palermitana, è qualcosa di diverso (ma non troppo). Gli undici racconti di Incidenti di consapevolezza sono accomunati da un’improvvisa “rivelazione”, una “presa di coscienza” provocata da banali “incidenti” che capitano ai protagonisti – uomini e donne comuni, in un caso perfino un “potenziale” uomo: uno spermatozoo che, dopo una visione profetica di ciò che lo attende se feconderà l’ovulo, rinuncia con la speranza che la vita generata da un altro “concorrente” sia più degna di essere vissuta. Da buddista non posso fare a meno di leggere queste “rivelazioni” come manifestazioni dell’ottavo dei dieci mondi di cui parlano gli insegnamenti di Nichiren Daishonin, quello detto di “illuminazione parziale” che «potrebbe corrispondere alla saggezza o all’intuizione, quello stato che ci permette di arrivare a una comprensione che deriva direttamente dalle nostre osservazioni, esperienze e riflessioni […] riguardante cose tanto grandiose quanto il funzionamento dell’universo o tanto umili quanto installare una presa di corrente. Ciò che conta […] e che arriviamo a tale comprensione tramite i nostri sforzi personali»[8] Un tentativo di illuminazione senza seguire un Budda, dunque. L’autore comunque non è buddista, bensì cattolico, e la credenza monoteista traspare in alcuni racconti. Ma andiamo con ordine. Il primo racconto è narrato in prima persona da qualcuno che, per un banale scatto d’ira dell’anziano avo, comprende «quella disgustosa natura umana» e inizia a provare disgusto per se stesso. È un racconto pessimista e a mio parere debole rispetto agli altri. Neanche il successivo lascia molta speranza: Max torna dopo molti anni nella sua terra d’origine, la Sicilia, per partecipare a una veglia funebre. Qui percepisce la distanza ormai incolmabile tra lui, americanizzato, e i suoi conterranei: tornerà deluso negli States, «la terra dove aveva trovato moglie e generato dei figli e dove quel viticcio portato dalla Sicilia aveva creato delle nuove radici»[9]. Il terzo racconto è per certi aspetti simile al precedente: anche qui si parla di un figlio che si è allontanato dalle proprie origini contadine, a cui desiderava legarlo suo padre. Rivedrà l’odiato genitore solo sul letto di morte quando, inaspettatamente, non si raccomanda di occuparsi dei terreni – come aveva fatto negli anni passati – ma domanda scusa al figlio per avergli dato la vita e, in inevitabile “eredità”, la morte, con la relativa consapevolezza della finitudine della vita, raccomandandosi quindi di non generare altri figli destinati a un tale dolore universale. È un racconto che dà davvero da pensare: ubbidendo ciecamente all’istinto riproduttivo, l’uomo non riflette sulla responsabilità che comporta mettere al mondo un nuovo essere umano – e non parlo solo dell’assurda prolificità nel Terzo Mondo, o del sovraffollamento globale, ma di qualcosa di più profondo: si comincia a morire già dal momento in cui si nasce, come ci ricorda l’autore tramite il suo personaggio. Tiziano Terzani sulla sua tomba avrebbe voluto come epitaffio «Morto perché nato», e non aggiungo altro. I due racconti seguenti sono collegati e formano una sorta di trilogia insieme al penultimo brano. Protagonista del primo è Leonard, un giovane autistico che finisce i suoi giorni in una casa di riposto, nello stesso giorno e per la stessa causa – un ictus – della sua compagna di stanza, Margaret, protagonista del secondo racconto. Margaret è una scienziata che, in punto di morte, si interroga sul senso della vita e su ciò che distingue un essere vivo da un oggetto inanimato: una differenza su cui scienziati e filosofi sono discordi. Il concetto di Eternità e di Tempo – a cui l’Uomo ha sempre cercato una definizione – viene infine compreso dalla moribonda la quale, prima di lasciare questo mondo, ha tempo di incidere sul mobiletto un «Sia santificato il Tuo nome» che sinceramente mi pare un po’ forzato e illogico, così come rimane non chiarito il misterioso legame tra la donna e il ragazzo autistico. Ritroviamo Margaret nel sequel: qui Protopapas immagina cosa potremmo trovare nell’Aldilà e il percorso per ricongiungersi con il Tutto. La visione dell’autore è teista senza dubbio: lontana da quanto ho invece immaginato io in un mio racconto che tenta di descrivere un viaggio ultraterreno che – buddisticamente – conduce alla reincarnazione. In Oltre[10] immagino che la testimonianza “impossibile” sia scritta su dei fogli da un malato di mente; fogli che verranno poi distrutti. Il sesto è forse il racconto più sconcertante: Dave vive in un mondo affetto da una strana pandemia che, tra gli effetti collaterali, dona preveggenza. La “malattia” può essere curata con l’assunzione di un farmaco che il protagonista si guarda bene dal prendere, nonostante sia invitato da tutti. Non voglio rivelare oltre, ma il finale è sorprendente, solipsistico. Si parla spesso di “intelligenza aliena” riferendoci ad abitanti di pianeti lontani, ma… e se fosse da cercare molto più vicina a noi? Il tema dell’intelligenza artificiale nasce nel secolo scorso ma è in questo secolo che ha conosciuto gli sviluppi maggiori: le macchine acquisiranno infine un’autocoscienza? Secondo l’autore ciò potrebbe avvenire nel 2038, come recita il titolo di un suo racconto, ma non avrà i contorni inquietanti di Terminator: sarà bensì un’intelligenza transumana benefica che aiuterà l’Uomo a evolversi e a comprendere che forse l’universo non è altro che un immenso cervello con pianeti al posto dei neuroni… Altra ipotesi, stavolta non scientifica ma comunque affascinante: e se il personaggio di un racconto acquisisse coscienza? Se domandasse ragione della sua esistenza al suo Autore? Ho sempre trovato la metafora dello scrittore-dio, soprattutto dopo aver letto il bellissimo romanzo-saggio di Jostein Gaarder Il mondo di Sofia, su cui ho scritto anche un articolo mettendolo in relazione con La storia infinita di Michael Ende[11]. L’ultimo racconto in realtà non è nemmeno un racconto ma una sorta di boutade composta da tre parole e due punti: «Domani. Se esisterà.» Ecco la domanda: ci domandiamo spesso come sarà il futuro, raramente mettiamo in dubbio se esisterà o meno. Ma il Tempo, così ci dicono alcune teorie scientifiche moderne, potrebbe avere un termine, quando sarà raggiunta la massima entropia. La morte dell’universo. Preferisco stemperare questo pessimismo vertiginoso con una citazione da una bellissima canzone dei Pooh, «Perché il mondo finirà… ma non domani!»[12] e con la celeberrima «chi vuol esser lieto sia, di doman non v’è certezza». Massimo Acciai Baggiani
Bibliografia
[1] Dove ho presentato il mio libro Radici, nel 2017. Vedi M. Acciai Baggiani et al., La compagnia dei viaggiatori del tempo, Firenze, Porto Seguro, 2017. [2] Il racconto si intitolava Oggetti e lo si trova, in una versione più vecchia in Premio letterario Il fascino del racconto - edizione 2016 (5° posto in quel concorso) ALA libri, e in una versione più recente in «Segreti di Pulcinella» n. 53, novembre 2017, vedi http://www.segretidipulcinella.it/sdp53/let_04.htm [3] Vedi anche l’articolo di Carlo Menzinger: https://carlomenzinger.wordpress.com/2018/09/10/gente-cattiva/ [4] Di questo racconto ne ha parlato anche Carlo Menzinger nel suo blog: https://carlomenzinger.wordpress.com/tag/michele-protopapas/ [5] Il Large Hadron Collider, l’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra, entrato in funzione proprio nel 2008 tra l’apprensione generale per il pericolo di formazione di mini buchi neri. [6] Vedi ad esempio M. Acciai Baggiani, La compagnia dei viaggiatori del tempo, Milano, ABEditore, 2017. [7] Non la stabilità della società “perfetta” del futuro immaginata da Aldous Huxley in Il mondo nuovo (1932) in quanto quella è una distopia. [8] R. Causton, I dieci mondi. Introduzione al buddismo di Nicheren Daishonin, Milano, Esperia, 2006, pp. 38-39. [9] Mi viene in mente il libro che ho scritto con mio cugino e Italo Magnelli, Radici (Porto Seguro, 2017), dove tuttavia la ricerca delle radici familiari è di segno decisamente opposto. [10] In «L’Area di Broca» n. 104-105 (luglio 2016 – giugno 2017). [11] M. Acciai, Il dio ateo: realtà e fantasia tra Gaarder ed Ende, in «Segreti di Pulcinella» n. 49 (maggio 2016): http://www.segretidipulcinella.it/sdp49/let_18.htm [12] Domani, dall’album Ascolta (2004). Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Maurizio Oliviero, Francesco Panizzo. |
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