Nella Poesia si cela un segreto: il segreto degli amanti. Oltre i segni, oltre le parole, oltre il senso, la poesia mostra il fenomeno del loro presentarsi e immediato assentarsi: il fenomeno del loro palpitare.
La tensione del pathos che tremolante non s’acquieta, il ritmo d’una poesia l’accoglie come un’araba alcova, e grazie alla sua chiusa, di fascìna incatramata, la trattiene. Ritmo e chiusa son d’importanza capitale nel portato poetico. È tra i loro tronchi che si rincorrono le parole, saltando quelli posati a terra, girando a tutto tondo con la mano intorno a quelli chiomati. Non sono forse una sospirata chiusa su un bel ritmo a far d’un amplesso un ricordo di cellule mai perse? La temporalità della coscienza è sempre disperdente, soccombe a frenesia fiumana, travolge i detriti del letto e delle sponde e li tracima a mare di dimenticanza. Gli spruzzi del frangente tempo gitano di coscienza, che mai si domicilia, precipitano e scorrono su altre terre ancora, senza chiusa che sbarri loro la strada, che li faccia risalire al loro punto d’attacco o di debutto. In una poesia, che si dica Poesia, quelle gocce d’acqua s’accomodano tutte con pudore evidente e, nel palpitìo del getto, testano l’un dell’altra la consistenza della propria fragranza. “Buono è qualunque stile che non si sbaglia sui segni e sul ritmo dei segni”, lessi una volta da qualche parte, e sulla chiusa aggiungerei. I bambini sono molto abili in tutto questo: ripetono lettere, ripetono parole, ci ritornano su, punto e daccapo; il gioco della ripetizione è per loro una camomilla al miele, e di sazietà ridono. Quando poi di una parola intuiscono solo vagamente il senso, lasciano che essa vibri su se stessa e che smuova tutt’intorno i sensi d’altre parole che stanno imparando ad approfondire. Ancora i bambini… giocano con passione a far finta di essere questo o quello, a farsi corpo di molte delle cose che li circondano, come delle persone, umane o animali, con tutte le fibre del proprio essere. Quel che essi fanno non è semplicemente un’imitazione, ma è la mimesis di cui parla Aristotele nella Poetica, un’espansione di sé stessi in altro da sé, dacché è così essenzialmente che l’uomo abita la terra; poeticamente. Ed è così che conosce e riconosce. Questa capacità poetica dell’essere umano è di chiunque ovunque, ma non è una cosa qualunque, richiede di farsi presenti al mondo, richiede dell’intensità. Come diceva Rimbaud, anticipando i surrealisti: siano tutti, in quanto esseri divini, devisous, dei perturbatori, voyants, poètes, créateurs. Ciò con cui ha a che fare la Poesia è sempre quindi l’ignota e tuttavia familiare esteriorità, il mondo di fuori, le sue affordances, o richieste d’invito[1], quelle qualità terze o valori estetici[2] a cui ci attenziona la filosofia più recente. Si tratta degli aspetti topologici e non visibili delle cose alle quali non abbiamo altro accesso che quello empatico del far corpo con esse. Ed è così che diviene più che visibile, o svelata, la maestosità di una grande montagna ad esempio o la stabilità di una piazza, il respiro di un cielo sereno o l’avvolgente senso di essere contenuti da una volta romanica. Il mondo quotidianamente pare coperto da un’ombra che non ce lo fa vedere fino in fondo, non sempre almeno; esso abbisogna di un atto poetico di svelatezza che lo sconfini, che pervenga alla sua ritmica espansione che mai si tace. La Poesia è come l’Arte, o arte essa stessa: rende visibile ciò che non è immediatamente visibile, perché è più che visibile. L’anima, si perde tempo a cercarla nei mondi interiori, ella si trova fuori, fuori soltanto possiamo imbatterci in lei. Forse il problema è che non le prestiamo mai attenzione, tanto che sovente non la vediamo. L’eccellenza in Poesia, quindi, è di quanti non si sbriciolano in sé stessi, ma si stagliano fuori da sé, nella respirabilità del mondo. fuori da qualsivoglia interiorizzazione romantica, o cedimento, un pozzo senza fondo in cui sbadatamente possiamo precipitare, spaginarci, nella corsa impeto-emotiva di nuovo a mare, perdendo il piacere di vivere in noi le qualità estetiche dei luoghi, delle cose o delle persone, di vivere in noi l’altro da noi, tanto da non poter dire faccio finta di essere…, ma effettivamente io sono…, come dicono i bambini. Natalia Anzalone
Note:
[1] J. J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna, 1999. [2] R. De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano, 2003. Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Aldo Pardi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Marco Maurizi, Gianluca De Fazio, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Nicola Candreva, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Francesco Panizzo. |
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