Il giorno in cui Elia vide precipitare la sua vita in una situazione ai confini della realtà cominciò in modo banale. L’uomo aprì gli occhi al suono insistente della radiosveglia, rimase un paio di minuti per assaporare ancora il dolce tepore del letto, diede un’occhiata alla moglie che dormiva girata di spalle – probabilmente non aveva neanche sentito la sveglia, comunque sarebbe rimasta a letto per un altro paio d’ore almeno – si vestì nella penombra e andò in cucina per farsi un caffè. Cercò con lo sguardo il pacchetto di sigarette che aveva lasciato la sera prima sul tavolo di noce; non lo trovò e si domandò dove poteva essere e chi lo avesse spostato. Possibile che sua moglie lo avesse gettato, magari perché vuoto? Era capitato in passato di prendere l’ultima sigaretta e dimenticarsi il pacchetto. In seguito avrebbe considerato che quello era il momento esatto in cui l’incubo aveva avuto inizio, anche se ancora non lo sapeva. Si annotò mentalmente di comprare un altro pacchetto mentre andava alla fermata del bus. Era scocciato: la prima sigaretta del mattino era un rito a cui non aveva mai rinunciato negli ultimi quarant’anni, da quando aveva iniziato con quel vizio, da adolescente. Caffè e sigarette; quello era il modo giusto per iniziare la giornata di lavoro. Pazienza: avrebbe dovuto accontentarsi del caffè, bello forte come piaceva a lui. Mentre aspettava che l’acqua cominciasse a bollire nella caffettiera aprì la finestra e diede un’occhiata ai consueti contorni cittadini e al cielo color cenere. Faceva piuttosto caldo quella mattina: un caldo decisamente insolito anche per una giornata di primavera inoltrata. C’era anche qualcosa di strano: il paesaggio non sembrava più quello solito, c’era qualcosa che non riusciva a definire, qualcosa di stonato…
Il caffè iniziò a venir su. Spense il fornello e lo versò nella sua tazzina da cui lo beveva da quasi vent’anni. La radio trasmetteva canzoni che non aveva mai sentito prima: avevano però qualcosa di familiare, di antico e moderno al tempo stesso. Provò una strana sensazione. Spense e andò a lavarsi i denti. Un quarto d’ora dopo era pronto per uscire. Si tirò dietro il portone di casa e andò incontro al suo giorno, uguale a migliaia di altri giorni analoghi. Fuori faceva decisamente caldo. Camminò senza fretta fino alla fermata del 14, in piazza D. Guardò l’orologio: c’era tempo per fermarsi a comprare le sigarette al bar tabacchi all’angolo della piazza. Vi si diresse a passo ansioso notando di sfuggita che c’era qualcosa di diverso nell’insegna ma non riusciva a capire cosa di preciso. Nel locale c’era la solita ressa di lavoratori che, come lui, si alzavano presto per andare a guadagnarsi il pane. Gente assonnata che cercava nella caffeina il giusto slancio per affrontare le prime ore del giorno. L’odore delle brioche era invitante, ma non si lasciò tentare. Doveva stare attento alla dieta. Si avvicinò alla cassa e domandò il solito pacchetto di Malboro Rosse. Il cassiere lo guardò come se non avesse capito. Anzi, come se avesse detto qualcosa di completamente assurdo. Solo allora alzò gli occhi e vide che gli scaffali alle spalle dell’uomo, solitamente ben rifornite di sigari e sigarette di tutte le marche italiane e straniere, era occupato da liquori e altri prodotti da bar. - Non ne vendete più di sigarette? – Domandò Elia, stupito. - Di cosa sta parlando signore? Cosa sono queste “sigarette”? - Cos’è, una specie di candid camera? Adesso Elia cominciava ad alterarsi. La giornata era già cominciata male senza la sua sigaretta mattutina e adesso gli stavano facendo perdere tempo con quella pagliacciata. - Cos’è una “candid camera”? Anche il cassiere cominciava ad alterarsi. - Signore, ho altri clienti, per favore mi dica cosa vuole. - Niente, niente… - Mormorò Elia allontanandosi. Di colpo aveva sentito come un vento gelido dentro di sé. Provò una strana inquietudine. C’era qualcosa di decisamente sbagliato in quella giornata. Si affrettò per non perdere l’autobus che stava sbucando proprio in quel momento dalla strettoia per immettersi nella piazza. Fece appena in tempo a salire insieme alla solita ressa di pendolari. Come al solito non trovò posto a sedere e dovette restare in piedi, attaccato alla maniglia, respirando il sudore delle ascelle degli altri viaggiatori in quella giornata torrida. Mentre le vie cittadine scorrevano pigre dietro il vetro, nel solito traffico caotico delle otto, per ingannare il tempo si mise a leggere le pubblicità e le “avvertenze per i viaggiatori”. Noto che mancava qualcosa: ma cosa? Ci arrivò solo dopo alcuni minuti, mentre il mezzo entrava nel centro della città. Mancava il cartello “Vietato fumare” con le relative multe per i trasgressori. In un altro momento si sarebbe rallegrato – da fumatore accanito qual era mal digeriva il fatto che i fumatori fossero ghettizzati quasi come gli indiani d’America nelle loro riserve – ma adesso c’era qualcosa di estremamente inquietante in quell’assenza. Sentì forte l’impulso di accendersi una Malboro. Si frugò nelle tasche nel caso vi fosse un pacchetto dimenticato. Non lo trovò. Si rassegnò ad aspettare la prossima tabaccheria. Il cielo nel frattempo si era aperto e un timido raggio di sole si era fatto strada fino ai tetti dei palazzi. Ancora qualche minuto e il bus arrivò alla fermata della Stazione Centrale. Qui la massa di passeggeri abbandonò il mezzo con impazienza, quasi si trattasse di una casa in fiamme. Travolto dalla fiumana di gente Elia quasi fu buttato a terra, sull’asfalto. Riuscì a tenersi in piedi e a uscire dalla ressa. Adesso che il suo pensiero si era concentrato sulle sigarette – non aveva mai sentito una tale voglia di fumare da quando era stato ricoverato in ospedale – notò che nessuno fumava. Di solito alle fermate era pieno di fumatori. Quel giorno non c’era nemmeno un filo di fumo, nemmeno quello degli scappamenti delle auto e dei motorini. Anche nei mezzi a motori c’era qualcosa di strano: avevano un aspetto insolito, in qualche modo antiquato e futuribile al tempo stesso. Erano molto silenziosi e non emettevano fumi… erano tutti mezzi elettrici! Notò che al posto del McDonald appena fuori dalla stazione c’era un’osteria e che il Burger King era stato rimpiazzato con un negozio di abbigliamento. Era matematicamente impossibile che ciò fosse accaduto nel giro di un solo giorno, pertanto la spiegazione doveva stare nella memoria e nello spirito di osservazione di Elia. Se non fumo una sigaretta al più presto impazzisco! Pensò Elia cercando con lo sguardo un tabaccaio. Entrò in stazione, lì ne avrebbe trovato di sicuro uno. Si sbagliava. C’era il consueto via vai di viaggiatori che affollavano i bar, le edicole e la biglietteria ma nessuna traccia di quel che cercava. Ci rinunciò momentaneamente, doveva affrettarsi per non far tardi al lavoro. Si incamminò con passo frettoloso e lo sguardo basso. La giornata lavorativa trascorse senza altri imprevisti, salvo un certo nervosismo che fu notato dai colleghi. Pensò di compensare l’astinenza da nicotina masticando una gomma, ma pareva che i distributori automatici ne fossero sprovvisti. Quando ne chiese una a Mario, il suo compagno d’ufficio, di solito ben fornito di Daygum, questi lo guardò come se lo stesse prendendo in giro. - Ma di cosa stai parlando? – Lo apostrofò. – Sei strano stamani, hai problemi a casa? Elia tacque e si rimise al lavoro, guardando continuamente l’orologio nell’attesa impaziente che arrivasse la pausa per il pranzo. Alle 13 spense il pc e uscì insieme ai colleghi per una spaghettata alla solita trattoria. - Giorgio, hai mica una sigaretta? – Domandò Elia. Giorgio era un fumatore ancora più accanito, quindi Elia era piuttosto stupito che ancora non ne avesse accesa neanche una. Questi lo guardò come si guarda un amico burlone. - Che, vuoi farmi la supercazzola a me?? Ma va va… Elia si zittì. Al ristorante cercò di ordinare i soliti spaghetti al pomodoro ma lo sguardarono strano anche lì. Ripiegò su un piatto di pasta al pesto e non disse altro per tutto il pranzo nonostante le punzecchiature dei colleghi, quindi tornò con loro al lavoro e riuscì a tirare avanti fino alle 15.30, pur con mille pensieri e le mani che gli tremavano dal nervoso. Quando uscì un sole spietato arroventava le vie cittadine. C’era qualcosa di folle perfino nel clima quella mattina; non era mai stato così caldo in quella stagione. Si asciugò il sudore con un fazzoletto e accelerò il passo. Si fermò di colpo davanti a un cartellone pubblicitario posto sulla pensilina del bus. La foto sorridente di Emanuele Filiberto di Savoia in divisa regale invitava la popolazione a festeggiare il quarantacinquesimo compleanno del Re d’Italia. Se fosse stata una giornata normale avrebbe pensato a una trovata pubblicitaria per un film ucronico, ma quel giorno erano successi già troppo fatti strani – piccoli fatti quali l’impossibilità di trovare una sigaretta, un chewing gum o un pomodoro e negozi avevano cambiato destinazione nel giro di una notte – che gli avevano messo addosso un’ansia crescente. Qualcosa gli diceva che non era un elaborato scherzo ai suoi danni e che qualcosa di veramente strano era accaduto durante la notte se l’Italia fosse tornata ad essere una monarchia e quel bischero di Emanuele Filiberto, che aveva cantato insieme a Pupo a Sanremo qualche anno prima, sedeva adesso sul trono italico. Cominciava ad essere spaventato. Continuò a camminare per la via affollata, quindi si fermò davanti alla vetrina di una libreria dove vide uno strano libro intitolato “La Leggenda del Continente Scomparso”. Qualcosa in quel titolo lo attrasse inconsciamente. Entrò e ne prese in mano una copia. Era stato pubblicato quello stesso anno dalle Edizioni Antinea in una strana località: Atlantis. Pensò dovesse essere uno scherzo visto che non era mai esistito un’isola di nome Atlantis, se non nella fantasia di Platone e dei suoi seguaci. A questo punto cominciò davvero a dubitare di essere in un luogo reale. Cercò di ricordarsi quando era stata l’ultima volta che avevo visto un mappamondo. Era come se che quel giorno fosse stato sbalzato in un’altra dimensione, così decise di acquistare il libro e tornare subito a casa a leggerlo. Entrò in casa e trovò la moglie intenta a fare le solite faccende da casalinga. Non la salutò neppure, tanto era sconvolto. - Caro, che succede? Tutto bene? - Scusami. Devo fare una cosa urgente. Si chiuse nello studiolo e vi rimase per tutto il resto del pomeriggio, finché la moglie non lo chiamò per la cena. Dunque era vero. Non stava sognando, non era un incubo in senso letterale perché ogni volta che si era posto quella domanda si era poi svegliato nel suo letto, magari in un bagno di sudore e con la tachicardia, ma comunque al sicuro, nel mondo che conosceva bene. Stavolta invece non c’era stato risveglio. Nonostante i numerosi indizi non era riuscito a capire subito l’elemento basilare che distingueva quel mondo assurdo dal suo. Gli era stato chiaro solo quando aveva il planisfero riportato nel libro che aveva acquistato, confrontandolo con quello dell’atlante che teneva in libreria. Appena lo aprì si trovò davanti ad una realtà sconvolgente. Al posto del continente americano vi erano migliaia di piccole isole. Secondo l’atlante e le notizie raccolte da altri libri: i computer erano presenti in quel mondo alternativo ed erano stati inventati in Italia dall’Olivetti, ma Internet non esisteva, non ancora almeno, magari non disponibile al grande pubblico. L’estremo oriente veniva periodicamente funestato da grandi uragani, mentre le piogge monsoniche colpivano periodicamente l’Africa. Le zone desertiche che Elia conosceva erano sostituite da paesaggi lussureggianti mentre la zona appena sotto l’equatore era desertica. Scorrendo i libri di geografia di quel pianeta Terra che fino al giorno prima gli sembrava familiare, Elia scopri che al posto delle Americhe c’era l’oceano e quello che erano nel suo mondo l’Oceano Atlantico e il Pacifico erano uniti, logicamente sotto il nome di Atlantico. Nella testa di Elia si susseguivano domande senza risposte: perché mi ritrovo in un pianeta senza l’America? Perché sono stato sbalzato in questa dimensione? Elia notò che il Grande Oceano era il punto di incontro di correnti calde e fredde, con frequenti uragani nell’arco dell’anno, il più delle volte estesi migliaia di chilometri. In quell’oceano basso dove si delineavano le forme del continente americano scoprì che laddove nel suo mondo vi erano le Montagne Rocciose e le altre alture delle Americhe vi erano delle fosse oceaniche. Esisteva però il continente Zelandia che gli inglesi avevano colonizzato a partire dal XVI secolo e una grande isola sul Grande Oceano. In questo scenario le calotte polari erano agli estremi dei poli e sia la Groenlandia che il grande continente antartico avevano delle coste prive di ghiacci. Possibile che le Americhe fossero un’invenzione? Prese il volume che aveva acquistato in libreria, lo aprì alla prima pagina e finalmente lo vide: C’erano delle isole chiamate Central Islands of North e Central Islands of South e infine l’isola di Patagonia. Elia cominciò a non capire più niente: si sentiva alieno in quella che doveva essere la sua Terra. Prese il volume dell’Enciclopedia e cercò la voce su Cristoforo Colombo. Quello che vi lesse fu come un colpo di grazia per la sua povera mente sconvolta:
CRISTOFORO COLOMBO (1451-1492?) – È stato un capitano e navigatore italiano, cittadino della Repubblica di Genova prima e suddito del Regno di Castiglia poi, famoso soprattutto per la sua scomparsa durante un viaggio esplorativo alla ricerca di una nuova rotta per raggiungere l’Asia da ovest, attraversando l’Atlantico di cui aveva sottostimato l’ampiezza. Partito da Palos de la Frontera il 3 agosto 1492 con tre caravelle concessegli dai Reali di Spagna, non raggiunse mai le coste del Giappone ma si perse nell’Oceano. Probabilmente l’equipaggio morì di fame dopo aver esaurito le scorte che dovevano bastare per un viaggio molto più breve, o fece naufragio a causa dei frequenti uragani che si scatenano al centro dell’Oceano. La prima persona ad attraversare l’Atlantico fu, com’è ben noto, l’inglese Jonathan Simpson nel 1558, il quale scoprì durante il viaggio le Isole Centrali. Elia non era mai stato appassionato di fantascienza. Aveva giusto letto qualcosa di Asimov e di Dick: in particolare aveva letto un romanzo di quest’ultimo, appartenente al genere ucronico. Il romanzo di Dick era ambientato in un’America alternativa che aveva perso la seconda guerra mondiale ed era stata quindi invasa da nazisti e giapponesi. Mai avrebbe immaginato, a quarantacinque anni, di trovarsi sbalzato in un mondo che apparteneva alla narrativa ucronica! Eppure doveva arrendersi all’evidenza. Pareva che il continente americano fosse sprofondato in un passato remoto, lasciando il suo ricordo nel mito di Atlantide – l’Atlantide di quel mondo alternativo, ovviamente – tramandato dai popoli antichi. Questo naturalmente spiegava il fatto che non si trovasse tabacco o pomodori – prodotti importati dall’America a partire dal XVI secolo – e si spiegava anche come mai l’Italia era ancora un regno. Sicuramente la seconda guerra mondiale, se c’era stata in quel mondo assurdo, doveva avere avuto ben altri esiti senza l’intervento americano. Tremava al pensiero di come questo avesse inciso sulla Storia. Pareva comunque che non vi fosse in atto una dittatura fascista o comunista e che in qualche modo il mondo non fosse molto più arretrato rispetto a quello che conosceva. Probabilmente alcune delle scoperte scientifiche effettuate in America, in quel mondo erano state messe a punto in Europa. Ciò era consolante, nondimeno sentì un gelo profondo e si acuì la voglia di una sigaretta. Probabilmente avrebbe dovuto sostituire il suo vizio con l’oppio o altre sostanze simili, si sarebbe poi accertato se in quel mondo fossero legali: se esistesse insomma un sostituto al tabacco. Accidenti, non aveva mai passato così tante ore senza nicotina! Chiuse nervosamente i libri e si concesse un po’ di pausa. La testa era sul punto di esplodergli. Per fortuna il caffè veniva dal Medio Oriente e non dall’America: almeno nel suo mondo, ma col cambio del clima planetario non ci si poteva scommettere. Tutto tornava. Il caldo ad esempio: meno terre emerse, dunque più mare, dunque minore albedo planetaria, ergo più caldo. Meno terre emerse, meno vegetazione che assorbe CO2, più effetto serra, di nuovo: più caldo. Meno terre emerse, più mare, maree più grandi e più maremoti, vita costiera e portuale più difficile e soggetta a tsunami. Mise su la moka e diede una nuova occhiata fuori dalla finestra della cucina. Lo skyline della sua città era lo stesso di sempre, sembrava impossibile che invece il mondo attorno a lui fosse così cambiato. Si fermò a riflettere sulle conseguenze che avrebbe la sparizione dell’America nel mondo che conosceva: sarebbero state innumerevoli, ben oltre quelle che aveva potuto osservare in quelle poche ore. L’apertura delle prime rotte commerciali con le colonie oltre Atlantico ad esempio impoverì non poco le marinerie mediterranee che importavano dal medio oriente, che più o meno allora perse il treno del progresso. Probabilmente, pensò Elia, in questo mondo la Silicon Valley parla persiano e la Standar Oil è a Bagdad. Questo spiegava anche i loghi di gusto orientale che aveva notato in strada. Indici di borsa dalla Wall Street egiziana, Bolliwood senza la concorrenza di Holliwood... cose che avrebbe notato più dell’assenza delle sigarette, se non fosse un fumatore accanito. Tornò con la mente alla carta geografica che aveva visto poc’anzi. Nelle isole del Grande Oceano, sopravvivrà pure del tabacco e del pomodoro... ma forse no se i pochi indigeni di laggiù fossero stati sterminati all’arrivo dei bacilli europei, così come le loro colture; colture che un furbo Elia potrebbe “reinventare” e metter su una novella Monsanto... - Tesoro, sei molto strano oggi. – La voce della moglie, apparsa all’improvviso alle sue spalle, lo fece trasalire. – Che succede? Mi devo preoccupare? Hai una faccia… Elia uscì dalla cucina senza rispondere e si chiuse in bagno. Il volto che gli restituiva lo specchio in effetti sembrava appartenere a uno zombie più che a un essere umano. Chissà se nel suo mondo, in quel momento, uno specchio analogo rifletteva un volto identico: quello del suo alter ego del mondo alternativo sbalzato dall’altra parte al posto suo. Certo anche quel disgraziato si sarebbe sentito spaesato in un mondo così simile eppure così diverso! Si sciacquò la faccia, come se quel semplice gesto bastasse a risvegliarlo da quell’incubo. Si asciugò al suo solito asciugamano e tornò nello studio. Cosa mai avrebbe potuto dire a sua moglie, ammesso che si potesse considerare tale quella donna sconosciuta così simile alla sua Francesca? “Cara, non sono più io, sono finito in un universo parallelo.” Doveva stare molto attento alle sue parole: un discorso di troppo e sarebbe potuto finire in un istituto psichiatrico. Doveva imparare quanto più possibile su quel mondo, e al più presto. Elia quel giorno cercò di apparire non troppo strano alla moglie, eppure non riconosceva più neanche i programmi della televisione che era solito guardare con Francesca dopo cena, in salotto: erano radicalmente diversi da quelli che lui conosceva. I nomi delle città erano differenti, così come c’erano delle piccole differenze nel linguaggio. Si strofinò gli occhi. Ripensando a posteriori, era tutto il giorno che vedeva in modo sfocato. Come se ci fosse una lampadina accesa a cui non arrivava tensione sufficiente, facendo sì che la luce andasse e venisse attorno a lui. All’inizio non ci aveva fatto caso, eppure durante la giornata la cosa era aumentata. Dopo essersi tolto le mani dagli occhi, iniziò a fissarsele. Sparivano e riapparivano, davanti a lui. Iniziava veramente ad avere paura. Uscì dal bagno. Si, lui era lo stesso dei giorni precedenti, ma era anche diverso. Sua moglie, apparentemente era la stessa, ma rispetto a lui, le sembrava “sfasata”, come si vibrasse interiormente ed esteriormente in una lunghezza d’onda differente. E per il resto del suo mondo? Di quello manco a parlarne, “vibrava” e variava istante dopo istante, come se la realtà stessa fosse sopra le onde di un mare mosso, con i cavalloni che gli sbattevano in faccia, la stessa realtà precedentemente conosciuta, ma nel contempo totalmente estranea, per poi, come in una risacca, ritirarsi, facendo apparire per un breve istante la vera realtà, la sua vera realtà, il suo vero universo, quello antecedente a quello strano “incubo!” - Esco a fare una camminata – biascicò più a sé stesso che non alla moglie. Fuori era come lo ricordava. Ma come lo ricordava come? Come era veramente prima di tutto ciò, oppure come era adesso, ma che secondo tutto il resto del modo era sempre stato così? Non lo sapeva più. I palazzi e le strade erano sempre le stesse, certo, l’aria era più tersa, sembrava quasi che lo smog fosse sparito, le strade erano pulite, non ci stavano schiamazzi, ubriaconi, barboni, drogati, immigrati di colore arrivati con barconi fatiscenti, giunti dopo i viaggi della disperazione alla ricerca di una nuova speranza di vita e di benessere. Tutta quella quotidianità era sparita. Lasciando spazio ad una nuova quotidianità, una quotidianità che però Elia non riusciva ad accettare, una nuova quotidianità che sentiva nemica e ostile. Era un mondo diverso dal suo. Sì, lo era. In positivo o in negativo? Non lo sapeva, oppure aveva paura di saperlo. Aveva il terrore di scoprirlo. Entrò nel bar che frequentava da anni. Si avvicinò al bancone e chiese al solito barista, Mattia, il solito. - Il solito? - fece il barista, fissandolo stupito. – Io non la conosco, signore - gli rispose l’uomo fissandolo come se lo vedesse per la prima volta in vita sua. - Ma come, non ti ricordi di me? - Gli fece Elia, anch’egli stupito. - Mi scusi, signore, ma è la prima volta che la vedo, eppure ci lavoro da dieci anni e le facce dei clienti abituali le ricordo tutte e la sua, mi scusi, ma mi è straniera - Fece l’uomo fissandolo come se Elia fosse appena uscito da un reparto di psichiatria. “Straniera…” pensò Elia. Effettivamente si sentiva uno straniero, un fuori posto, fuori posto, ma doveva esserci una spiegazione razionale per tutto ciò. Si strofinò nuovamente gli occhi. La sensazione che il mondo attorno a lui continuasse ad “andare e venire” si stava accentuando. Prima era solo di una frazione di secondo, quasi impercettibile, adesso però i tempi, quasi esponenziale stava aumentando e l’oscurità attorno a lui prendeva il sopravvento sempre più spesso. - Mi dia una grappa di prugne. - Una grappa? - Fece il barista basito. - Mi dispiace, ma non so che tipo di bevanda sia. - Come non sa cos’è una grappa…? - Quasi gridò Elia. Mentre l’oscurità continuava a giungere a balzi sempre più grandi, scaraventandolo sempre di più nel buio, tra le risacche delle realtà che si sovrapponevano e si incrociavano. - Lasci stare. Faccia conto che non gliel’abbia chiesta. Mi faccia un caffè, per favore. Il barista fece un sospiro, come se si fosse rasserenato. E dopo aver armeggiato per alcuni minuti con la macchina del caffè, voltandogli le spalle, glielo porse. Elia lo bevve amaro, nella speranza che qualcosa mutasse. Fece una smorfia, quando mandò giù il primo sorso. Ma nulla mutò. Lo terminò in due rapide sorsate e senza aggiungere altro, lo pagò, si alzò dallo sgabello e uscì. Sollevò gli occhi al cielo e questi lo sovrastava con la sua magnificenza. Se ne stava andando. O il mondo se ne stava andando o se ne era già andato. Sta di fatto che qualcuno, lui, o qualcosa, il mondo, era partito. E non conosceva la destinazione finale, la stazione di arrivo e forse, peggio ancora, non ci stavano stazioni intermedie per scendere. Riprese la strada di casa. I flash oscuri continuavano ad aumentare. Sentiva che, per qualche ragione sconosciuta, stava letteralmente sparendo da quel piano universale. Era terrorizzato da quell’idea, eppure la vedeva ineluttabile. Rientrò in casa, la moglie era ancora davanti alla tv. Una moglie conosciuta, ma sconosciuta, i programmi televisivi conosciuti, ma sconosciuti. Una casa conosciuta ma sconosciuta. Ripensò alle sigarette. Alle sue Malboro rosse, al suo unico appiglio alla realtà del suo vero mondo, il suo mondo perduto, che era scomparso da quel piano esistenziale. Doveva esserci una spiegazione, anche che andasse oltre la consueta logica e ragione, che lo aiutasse a dare un senso a tutto ciò. Doveva esserci. Cosa veramente era accaduto quella notte, quando al risveglio tutto era cambiato? “Il pacchetto di sigarette. Ma certo”, pensò improvvisamente. Tutto è cominciato da lì. Da quel pacchetto di sigarette mancanti, da quelle bionde misteriosamente sparite. Quella doveva essere la chiave di volta, la testata d’angolo, la soluzione dell’arcano. “Ma cosa avevano di speciale quelle sigarette lì?”, Continuava a chiedersi Elia, sicuro d’essere ormai giunto in prossimità del filo di Arianna, della matassa da srotolare, per arrivare al punto di origine, al punto X di intersezione che aveva alterato la sua realtà. “Ma aveva realmente alterato la mia realtà, oppure era semplicemente cambiata, franandomi addosso, la mia percezione della realtà?” Continuava a chiedesi. “E se era cambiata non la realtà, ma la percezione della realtà, allora la realtà, quella vera, la sua, doveva essere nascosta in qualche parte, non poteva essere sparita, dissolta, come se non fosse mai esistita.” Concluse, quasi rasserenato, anche se il tempo a sua disposizione in quell’universo inventato dalla sua mente, stava per scadere. Elia lo sapeva, lo sentiva. Ogni fibra del suo corpo e della sua mente glielo gridava costantemente, secondo dopo secondo. Elia sapeva che doveva tornare indietro. Ma qual era il punto esatto? Cosa era accaduto durante il sonno. Perché la chiave era sia il pacchetto di Malboro Rosse, sia il sonno. Lui doveva aver fatto qualcosa di inconsulto quella notte, in modo forse inconscio, senza volerlo. Lui era l’artefice di quello sconquasso. Ora Elia ne era sicuro. La soluzione era nella camera da letto. Lì qualcosa si era aperto davanti a lui e ci era entrato, chiudendosi poi la porta alle spalle, dimenticandosi però la chiave a combinazione per riaprirla. Il nero si avvicinava sempre di più, a grandi passi. Si guardò il volto allo specchio. Le orecchie, così come quasi tutti i capelli e una parte della fronte, erano scomparsi. Poteva vedere una piccola porzione di un quadro senza valore, comprato da un rigattiere l’anno precedente. Stava sparendo, ma non sapeva se sarebbe diventato trasparente, invisibile e se poi sarebbe scomparso, rimanendo come un ectoplasma in quella stanza, oppure se una volta terminato il processo, si sarebbe dissolto completamente. Eppure il processo accelerava ogni istante di più. Iniziò a frugare furiosamente nella camera da letto, sollevando le coperte, guardando sotto il talamo, dove il pavimento in legno di noce era diventato un centro di accoglienza per acari, in attesa di asilo, visto che sua moglie detestava passare negli interstizi con l’aspirapolvere o peggio ancora con uno straccio umido e quindi questi bivaccavano a sue spese, a per colpa dell’indolenza della sua sposa e questo nonostante tutto, lo fece sorridere. Il tempo stava stringendo sempre di più. La realtà, la sua realtà, stava collassando, implodendo in sé stessa, in modo sempre più rapido. Ora la dissolvenza non riguardava solo il corpo di Elia, ma anche il mondo circostante. Elia si dissolveva e il mondo veniva fagocitato, centimetro dopo centimetro, dall’oscurità. Ed era la stessa oscurità che in precedenza Elia aveva scambiato per il buio della notte, senza stelle. Ora Elia stava iniziando a ricordare. Il terrore di scomparire, di diventare evanescente e la certezza che il mondo attorno a lui stesse per essere inghiottito dall’oscurità, come una scossa elettrica, gli risvegliò i ricordi. Ora sapeva. Quella notte, ma non era stata l’unica notte della sua vita, anzi. Anche quella notte aveva sofferto di sonnambulismo. Se ne era accorto il mattino seguente, appena aveva aperto la porta del bagno e aveva visto la tazza del water chiazzata. Aveva pulito velocemente. Era un brutto vizio che si portava dietro da anni, per quel motivo si alzava sempre prima della moglie, sempre. Già da prima di sposarsi. Sapeva che di notte era sonnambulo e anche la moglie lo sapeva ma, per amore, fingeva di non saperlo e di non essersene mai accorta. Ma non era vero. La donna infatti il più delle volte si alzava dopo che il marito era tornato a letto e puliva ciò che costui durante il sonno, lordava. Anche se costei, ogni volta che quelli eventi accadevano, si chiedeva, se veramente Elia li commettesse da sonnambulo o se invece lo facesse da sveglio, in modo conscio. Ma non lo aveva mai colto sul fatto. Elia la vedeva giungere a grandi passi l’oscurità. Era davanti all’uscio del suo corpo, tutto attorno a lui. I suoi arti inferiori si stavano dissolvendo. Negli ultimi istanti quasi tutto era scomparso, avvolto nel buio. Sparito, divenuto parte di un mondo mai realmente esistente: il nulla. Elia cadde a terra sbattendo il volto sul pavimento. Le gambe non erano semplicemente diventate invisibili, ma erano comparse. Sparite. Divorate dal suo interno, senza però perdere una sola goccia di sangue o senza che si vedessero ossa o muscoli sporgere. Semplicemente cessavano di esistere. Eppure, stranamente, non percepiva alcun dolore, nulla di ciò che stava sparendo, gli causava sofferenza. Elia aveva temuto che con la caduta gli si fosse rotto qualche dente e attendeva la scudisciata di dolore e la bocca impastata di sangue. Ma tutto ciò non avvenne. Si mise il dito impolverato in bocca, ma comprese che la bocca gli era sparita, così come tutti i denti e una parte del palato. Al suo posto ci stava il vuoto. Quando estrasse il dito da ciò che doveva essere la sua bocca, il dito stesso era sparito. La sua mente continuava a correre a ritroso. Continuava a regredire sempre di più, come se si fosse ipnotizzato da solo. Tornò indietro alla notte prima del risveglio in quel mondo privo di sigarette, in quel mondo totalmente diverso da ciò che fino a prima aveva conosciuto e finalmente ci fu lo schiocco, lo stacco e vide l’evento che aveva dato via a tutto. Il Elia, a livello conscio, non voleva che il mondo cambiasse, secondo lui viveva in una realtà apparentemente perfetta. Purtroppo il suo subconscio non era dello stesso avviso. Quella notte, mentre era sonnambulo, la parte più remota e nascosta del suo inconscio, nascosta anche al suo stesso inconscio pregò perché il fumo così come lo conosceva, non fosse mai venuto alla luce, perché il suo vizio lo stava letteralmente divorando e consumando. E il cambiamento iniziò a livello quantistico. Il suo desiderio più profondo trasformò, prima a livello quantistico, poi subatomico, atomico, molecolare, cellulare e fisico il mondo attorno a lui. Ma la mutazione non fu mai completa, perché la parte razionale di Elia rifiutò il cambiamento e il rifiuto stesso portò a una modifica del tempo e dello spazio del mondo di Elia e di tutto ciò che lo circondava. Ma quella mutazione avvenne solo per Elia, e per le persone che ruotavano attorno alla sua realtà, creandogli un’illusione che il tutto il mondo fosse mutato. Ma il mondo non era mutato, era sempre quello di prima, ma era Elia che lo percepiva, lo vedeva, lo toccava, in modo totalmente diverso rispetto a ciò che era in precedenza, perché era cambiato solo il suo modo di percepire il mondo, ma non il mondo. “Devo trovare una sigaretta…” continuava a pensare senza tregua La clessidra della sua esistenza in quel mondo fisico stava per terminare i granelli di sabbia. La vedeva davanti ai suoi occhi. Vedeva la clessidra e vedeva i granelli, che scendevano dall’alto, ma quando passavano attraverso la strozzatura, sparivano, si dissolvevano. Non giungevano mai al fondo. “Una sigaretta. Debbo trovare solo una maledetta e fottuta sigaretta!” Si guardò attorno, mentre l’oscurità continuava ad avanzare, fagocitando la realtà, imbrigliandola in un buio dove anche il buio era privo di colore e forma. La dissolvenza del suo corpo procedeva. La dissolvenza era giunta alle cosce e si stava estendendo a macchia di leopardo al resto del suo corpo. Elia iniziò a strisciare sul pavimento, muovendosi verso il comodino a fianco del letto. Sapeva che lì era conservata quella che in passato era la “sua ultima sigaretta”, lasciata lì, quando dieci anni prima aveva promesso a sé stesso che non avrebbe più fumato. Promessa mantenuta parzialmente, in quanto era riuscito a resistere solo per poche settimane, per poi riprendere come e più di prima, ma quell’ “ultima sigaretta”, era la sua vetta di resistenza al vizio che amava ma che lo consumava e la conservava da anni come un trofeo, come la medaglia d’oro dell’astinenza, vita da sé stesso. Nemmeno sua moglie sapeva della sua esistenza e lui, in preda al panico, l’aveva scordata, ma ora, che tutto il suo mondo si stava sfaldando, dissolvendo, che tutto il mondo stava evaporando e scomparendo in un’oscurità senza colori, lei era forse il suo unico faro di sopravvivenza, la sua ultima speranza di riacquistare la materialità perduta. Continuò ad arrancare strisciando sui gomiti. Sentiva che le forze gli venivano sempre meno. Rivoli di sudore gli imperlavano la fronte o ciò che ormai gli rimaneva. Raggiunse il comodino. Apri con la mano destra o ciò che gli restava, solamente il dito indice, lo sportello di legno e ce lo ficcò dito dentro. Parte del bacino era stata divorata, era sparita. Anche i capelli non c’erano più, spariti. Così come l’occhio sinistro e parte della schiena, all’altezza delle scapole, ma assurdamente, continuava ad essere vivo, ad essere cosciente. La vide in modo sfocato, in quanto anche l’occhio destro stava per scomparire e tra poco ci sarebbe stata solo l’oscurità. Aveva pochi minuti a disposizione, forse meno, prima che tutto in lui e attorno a lui scomparisse per sempre. A fatica la prese e, dopo averla fatta cadere più volte, riuscì a metterla in ciò che credeva essere ancora la bocca. Non aveva più le labbra. Parte del naso stava scomparendo. “Un accendino, devo trovare un accendino” pensò, con gli ultimi rimasugli di coscienza che gli rimaneva. Non vedeva quasi più nulla. Sentiva che era scomparso quasi completamente. Gli rimanevano pochi secondi… - Elia, stai cercando questo? - Gli disse una voce che proveniva da un altro universo. Era sua moglie, Francesca. Teneva in mano un Bic e con il pollice faceva ruotare la rotellina, che avrebbe fatto scoccare la scintilla per accendere il gas butano, presente nell’accendino. Elia si voltò in direzione della voce. Non la vide, ma naturalmente la riconobbe. “L’ultima sigaretta” gli cadde dall’orifizio che aveva al posto delle labbra. La donna sorrideva sadicamente compiaciuta. - Te ne stai andando, amore, vero? - Lo canzonò. - Accendimi la sigaretta, ti prego. Ti scongiuro. - La implorò Elia, credendo di parlare, anche le sue corde vocali si erano dissolte. Elia fece per allungare la mano verso la donna che si era avvicinata a lui, facendo tintinnare i tacchi delle scarpe, ma anche il braccio si era dissolto. La moglie lo fissava. Francesca, a differenza del resto del mondo, non stava scomparendo. Anzi. La sua forma era intatta. La donna raccolse la sigaretta e invece di porgerla a ciò che rimaneva del marito, prese la Malboro e se la infilò tra le labbra e l’accese. Elia sentì l’odore di fumo giungergli all’olfatto. Stramente quello era rimasto intatto. Fece un lungo sospiro. La moglie tirava corte boccate, soffiandogli il fumo su ciò che rimaneva del volto. Se avesse avuto gli arti intatti, Elia, l’avrebbe agguantata per la gola, uccidendola lì, sul colpo, strozzandola. Francesca continuava a fumare felice. Lei che in vita sua non aveva mai toccato una sigaretta, anche se ogni tanto il suo volto diventava paonazzo e non aspirava completamente il fumo. Una lacrima scese da ciò che restava del volto di Elia. Francesca terminò la sigaretta, la gettò a terra e quando il mozzicone si spense completamente, Elia era scomparso. E il mondo di Francesca era tornato finalmente al suo posto. Il mattino seguente, Francesca, si alzò dal letto. Prese una Malboro rossa e l’accese. Elia non avrebbe più fatto il sonnambulo e soprattutto lordato la tazza del bagno! Massimo Acciai Baggiani
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