Quando si guarda Quando cadono le stelle di Gian Paolo Serino Articolo di Viviana Vacca
“Non sono quindi uno scrittore. Mi metto decisamente fra gli ‘scriventi’, quelli la cui scrittura è transitiva. Voglio dire quelli la cui scrittura è destinata a indicare, mostrare, manifestare fuori di se stessa qualcosa che, senza di essa, sarebbe rimasto, se non nascosto, almeno invisibile. È forse là che per me esiste nonostante tutto, un incanto della scrittura”.
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Nel 1968, il critico letterario di Art Claude Bonnefoy propone a Michel Foucault una serie di conversazioni sul senso della scrittura come impresa personale, come un bel rischio, perché pericoloso: essere nel linguaggio per l’animale umano comporta il rovescio oscuro di sé di cui molto raramente la superficie delle pratiche rende conto. Foucault infatti non spiegava o descriveva in queste conversazioni bensì rifletteva sull’attività quotidiana che pre-cede l’insieme di tutti i registri discorsivi. Ogni scrivere - in fondo ci dice Foucault - organizza e mette in-forma la morte degli altri in cui ciò che è scritto è del passato, di gente morta. La propria morte che, a partire da quella di chi è trapassato, si organizza come morte individuale, nell’esibizione della finitudine come limite della condizione umana. Lontano dai tentativi di resurrezione storicistica del passato, per Foucault lo scrittore e lo scrivente si incontrano su una soglia: quella diagnostica in cui scrivere è farsi anatomopatologi (di uomini infami, di norme, di modi di governo) in quell’atto colmo di distanza dal mondo in cui si inscrive qualcosa nel corpo degli altri.
Nelle sillabe deposte su un foglio si tenta di far defluire i corpi - come in Roussell, Artaud o Kafka - in un “non essere altro che quegli scarabocchi, morti ciarlieri a un tempo. Ma a questa riduzione della vita non si arriva mai…” In altre parole non si scrive in un’inconsapevole piacere di scrivere ma piuttosto il bel rischio di Foucault rimane l’urgenza che delimita la zona neutrale in cui si colloca l’anonimo effetto di ogni scrittura, tentativo complicato di delimitazione di ciò che è “letteratura” da ciò che sembra più che altro produzione narcisistica di sé. Si prova un piacere intenso e sfrangiato nel leggere “Quando cadono le stelle” di Gian Paolo Serino, “esordio” letterario di un critico che fa ben sperare nel “nuovo” se non altro perché - pagina dopo pagina, storia dopo storia - l’(a)utore fa trasparire la preoccupazione, la fatica, l’attenzione verso i suoi personaggi. Co-costruisce con le storie che riorganizza con forza in una polifonia di voci e di lettere sottoponendosi senza risparmi ma con spreco - di sé, della propria storia - a un rischio. Quello di poter scrivere un romanzo in cui si mostra l’incanto di ogni caduta umana, che come quella siderale delle stelle, conosce la verità di brillare per tempi cronologici troppo brevi. Alle spalle, il mito del Grande Show descritto con punte di visionarietà che ricordano certe scene di David Lynch e l’Hollywood sadcore della misteriosa e affascinante icona ultra rock Lana del Rey, in cui le vicende dei personaggi - Picasso, Sallinger, Kafka, Cary Grant e Hemingway - sono affidate all’emergenza di geografie in cui ogni paesaggio e ogni suono virano verso l’estremo della solitudine: dentro camere di motel abbandonate nel deserto, anime lontane sembrano celebrare la gentilezza degli sconosciuti che hanno incontrato lungo la strada. Nel contrasto o nella sua linea interstiziale, ogni personaggio è un angelo infelice che incontra e si lascia assaggiare dalle più potenti passioni, incontrando la propria caduta. E Serino li fa sopravvivere al cliché “vivi veloce, muori giovane”, anche soltanto perché oggi sono più vecchi di quanto James Dean non sia mai stato. La letteratura - mestiere del critico attento e chirurgico - non è l’oggetto di questo romanzo; Foucault rimaneva colpito dalla precisione con cui dal bisturi - eredità paterna - si era passati alla penna, veicolo di cicatrici indelebili; Gian Paolo Serino invece - figlio di un gesto paterno che ancora manca - con dolcezza si consegna al futuro. “Fare lo scrittore è una vocazione che non ha proprio niente di affascinante. È un mestiere artigianale come un altro. Non esiste alcuna ispirazione, non c’è musa, dea, fascio di luce che scenda dal cielo ad accenderti la mente. Sei solo tu e il tuo lavoro, e tutto il resto è mera velleità. Niente di più.” (Gian Paolo Serino, Quando cadono le stelle, Baldini Castoldi 2016, pag. 21) Viviana Vacca
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