Cosa fareste voi aspiranti genitori se un medico, esami alla mano, vi dicesse che il figlio che state aspettando ha una buona probabilità di essere omosessuale?
Il romanzo di Marco Bazzato, Aborto d’amore, parte da questa premessa che ad alcuni potrà apparire inquietante ma pone una questione ancora più vasta, già a lungo dibattuta, che continua a fomentare aspre diatribe tra sostenitori e oppositori: la liceità dell’aborto. È giusto che un figlio nasca contro la volontà dei genitori? È giusto per i genitori? Per il bambino? Per la società? La storia che Bazzato narra, con un linguaggio crudo e violento che ben si adatta alla vicenda ambientata in Veneto ai giorni nostri, è una di quelle storie che non possono lasciare indifferenti, che non possono non far riflettere. Non è certo un romanzo rilassante, anzi direi che è come un pugno nello stomaco, e non è neanche un libro per tutti ma solo per coloro che non temono di confrontarsi con tematiche difficili quanto attuali. Sconsigliata dunque la lettura alle persone che si turbano facilmente e non sanno gestire l’inquietudine, l’indignazione che inevitabilmente farà sorgere questa lettura, sia che ci si schieri con coniugi Rampin – a cui è stata profetizzata la nascita di un figlio gay – sia che ci si schieri con i sostenitori dei diritti degli omosessuali o in generale con gli antiabortisti. Che esista veramente il gene responsabile dell’omosessualità è tema dibattuto in ambito scientifico e mai provato, ma il fulcro del suo romanzo è altro: ci si interroga se i genitori hanno diritto a scegliere della vita e della morte di un feto che sta crescendo ignaro nel ventre di Arianna Rampin, tipica madre veneta con un bambino e due aborti naturali alle spalle. Un’altra interruzione di gravidanza comporta dei pericoli medici, così la decisione è ancora più sofferta. La privatissima questione familiare balza a un certo punto alla ribalta della cronaca e finisce sotto i riflettori dei giornalisti che, come avvoltoi, calano per sbattere la questione in prima serata e fare audience. Tra questioni religiose, etiche e giudiziarie si dipana la vicenda fino al suo epilogo che ovviamente non spoilerò. Il romanzo è ben scritto e avvincente, costruito con perizia da un grande narratore qual è Marco Bazzato (già autore di Progetto Emmaus, altra opera dai contenuti forti), ed è capace di tenere il lettore incollato fino all’ultima riga. A me ha suscitato molte riflessioni personali che vorrei qui esporre, prendendo come spunto proprio questa vicenda inventata ma che potrebbe benissimo essere reale e precisando che si tratta di un mio personale punto di vista. Premetto che io sono un sostenitore della libertà, in campo sessuale come in altri campi: tra adulti consenzienti per me tutto e permesso, in accordo col diritto (una conquista peraltro recente; fino a non molti decenni fa avere rapporti omosessuali in Inghilterra era reato penale, e lo è ancora in molti luoghi del Terzo Mondo, un reato punito addirittura con la morte). Per me omo ed etero hanno e devono avere gli stessi diritti. Tuttavia sono anche a favore dell’aborto, che ritengo un diritto inalienabile della donna, e penso che per un figlio o una figlia omosessuale non sarebbe un bell’affare nascere in una famiglia omofoba, come non sarebbe, più in generale, una cosa positiva per un figlio o figlia etero nascere in una famiglia che non lo/la desidera. Il discorso si potrebbe allargare a quei bambini portatori di handicapp che, se potessero scegliere, forse sarebbero i primi a chiedere alla madre di abortire. Mi rendo conto di dire delle cose forti e anche in certa misura arbitrarie: in fondo non si può per ovvi motivi chiedere il parere del diretto interessato, ossia il feto. Ma il feto si può considerare una persona a tutti gli effetti? Quando comincia effettivamente la vita? All’atto del concepimento? Al momento della produzione dell’ovulo o dello spermatozoo che lo penetrerà? O forse è ancora più antica e affonda in vite precedenti, come insegna la dottrina della reincarnazione? Forse la vita fluisce eternamente dall’infinito passato all’infinito futuro, come insegna il buddismo, e non ha un vero inizio e una vera fine… ma il discorso ci porterebbe lontano ed è bene non divagare troppo. Il diritto, dicevo, di decidere della vita di un feto è un diritto della donna che lo porta in grembo. Ma può essere anche un diritto della società dove quella donna vive? Mi spiego meglio. Immaginiamo che così come fosse possibile isolare il gene dell’omosessualità fosse possibile individuare anche quello della criminalità. Se si sapesse che il tale feto ha buone probabilità di essere un futuro serial killer, o uno stupratore o un violento, etc, etc… Sarebbe giusto interrompere la gravidanza? Io ritengo che non sia solo giusto, ma anche doveroso. Auspico un futuro in cui il potenziale criminale venga fermato addirittura prima di nascere: penso che ci arriveremo, magari tra uno o due secoli o più, ma ritengo che sarebbe un fatto inevitabile se la premessa che la propensione alla delinquenza sia genetica si dimostrasse fondata (tra l’altro è una tematica che sto affrontando in un mio romanzo breve di fantascienza che sto scrivendo in questo periodo). E il gene dell’ateismo o del fanatismo religioso? In una società di fantatici religiosi o di atei un elemento così diverso sarebbe sicuramente sgradito (forse più tollerato dagli atei, ma fino a un certo punto) e non avrebbe vita facile. O il gene dell’omofobia? Una coppia di donne porterebbe a termine la gravidanza se il loro figlio fosse un potenziale omofobo, oppure lo accetterebbero comunque come un dono anche se crescendo odiasse le due madri? Come si vede lo spunto di riflessione che mi ha dato Marco Bazzato mi porta lontano. Ma Bazzato non parla solo di eugenetica e di omofobia; dipinge un ritratto desolante anche del mondo del giornalismo televisivo, dell’assenza di scrupoli, dell’invadenza dei media nella vita di privati cittadini che può configurarsi come un vero e proprio “stupro mediatico”. Anche su questo dovremo riflettere; in particolare mi torna alla mente il mio lavoro di ricerca mentre preparavo la mia tesi di laurea su “Comunicazione e fantascienza”. D’altronde ciò che era solo fantascienza quando scrivevo la tesi, una quindicina di anni fa, oggi già non lo è più: quello dei media e delle notizie è un mondo in rapidissima e continua trasformazione. Tornando però al tema dell’aborto, vorrei concludere questa breve e, mi rendo conto, incompleta panoramica su un argomento difficilissimo, citando il pessimista Giacomo Leopardi che si dichiarava d’accordo con i saggi greci sul fatto che è comunque meglio non essere mai nati, e preferibile morire presto (e qui concedetemi un gesto scaramantico, visto che io non la vedo nello stesso modo sul morire presto dal momento che abbiamo avuto la fortuna o disgrazia di venire al mondo…). Massimo Acciai
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