Non è facile trovare il bandolo della matassa di questo Le Georgiche, romanzo/non-romanzo di Claude Simon. E questo non perché sia un libro povero di stimoli e di suggestioni – alcuni degli amanti dell’autore lo ritengono al contrario uno dei suoi capolavori – ma piuttosto perché la narrazione assume fin dalle prime pagine un carattere atemporale in cui i piani e le voci narranti si alternano, si sovrappongono, si confondono e la materia si dipana in un periodare interminabile, ricco di deviazioni, di forme gerundive che sembrano anch’esse voler sospendere la temporalità a favore di una prosa descrittiva che va a comporre delle scene, dei tableaux vivants enigmatici, ricchi di simboli forse, ma simboli dei quali ci pare di aver perduto la chiave interpretativa. Sulle prime può sembrare che il titolo stesso sia fuorviante, perché uno si aspetterebbe, visto il rimando virgiliano, che si parlasse soprattutto di lavori agricoli, di vita nei campi e invece sin dall’inizio gli argomenti dominanti del racconto – che procede spesso di incidentale in incidentale per svariate pagine in uno stile che non sarà improprio definire proustiano al cubo – sono le campagne militari, gli spostamenti del fronte, le ritirate, insomma la guerra. Poi subito un’altra difficoltà per chi legge: il racconto è sdoppiato, come sdoppiato è il punto di vista di chi narra le storie, alcune si svolgono ai tempi della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, altre ai tempi della seconda guerra mondiale, niente sembra collegare le peripezie dei due uomini d’arme che si alternano come una lunga serie di staccati, talvolta convergono, altrove divergono, solo progressivamente si vanno scoprendo i legami e le discendenze.
In realtà, se si guarda in filigrana, la tematica georgica è presente, ma come il negativo di un positivo, come una realtà adombrata su cui verte il discorso implicito più che quello esplicito, è presente per esempio nelle direttive che il generale d’artiglieria Jean-Pierre Lacombe invia alla sua intendente Batti perché si occupi degli alberi della villa di campagna o perché si premuri di far accoppiare l’arabo Moustapha comprato a Tunisi con le altre cavalle di sua proprietà. L’altra voce narrante, lo si capisce poco a poco, è quella di Simon stesso o comunque quella di un suo alter ego letterario, un personaggio anch’esso mobile, un Io/Non-Io che compare in molti testi simoniani e che per alcuni tratti fondamentali è certamente modellato sulle esperienze di vita dell’autore – e prima di ogni altra quella bellica – ma in cui sono presenti anche elementi d’invenzione letteraria. A queste due voci narranti – in realtà la narrazione avviene per la maggior parte in terza persona, ma si tratta in entrambi i casi di una terza persona assai prossima al personaggio di cui si occupa, una telecamera che li segue da molto vicino – a queste due voci che si inseguono e si intrecciano per tutto il corso del racconto se ne aggiunge poi una nuova nella quarta parte, e Simon in questo pare seguire un procedimento costruttivo di tipo musicale introducendo un tema del tutto diverso rispetto al resto della composizione, prima di riprendere i temi di partenza nel movimento finale. Anche qui solo col progredire della lettura si arriva a capire chi è questo nuovo io narrato: è George Orwell, o meglio è il ritratto che Orwell ha dato di sé e della guerra civile spagnola in Omaggio alla Catalogna; rispetto a questo io e a quella ricostruzione dei fatti, Simon assume un tono distaccato e ironico che tende a ridimensionare almeno in parte la figura quasi mitica dello scrittore-combattente data da George (così anche il titolo si arricchisce di ulteriori sfumature) nel suo libro, uno dei classici dell’interpretazione trotskista e anti-staliniana di quegli anni. La natura metatestuale de Le Georgiche è infatti un’altra delle direttrici salienti, delle fondamenta costruttive del libro, ci vengono presentati tre vissuti, tutti accomunati dall’esperienza della guerra, ma ognuno di questi vissuti ci viene già presentato attraverso la mediazione della testimonianza scritta, del resoconto letterario: la vita di Lacombe, avo di Simon e acquirente della villa di campagna in cui l’autore stesso passò, più di un secolo dopo, parte della sua infanzia con gli zii, ricostruita attraverso carte e corrispondenze sia ufficiali che private; la vita del soldato Claude, anch’essa ampiamente filtrata da quanto a proposito Simon aveva già detto in suoi precedenti romanzi come La strada delle Fiandre; la vita di Orwell ai tempi della guerra di Spagna alla luce di quanto l’inglese ne ha tramandato in Omaggio alla Catalogna. Il libro si presenta quindi per molti aspetti come un’opera letteraria di secondo livello, per così dire, un’opera cioè che ricompone e giustappone esperienze di vita e politiche già passate attraverso il filtro riflessivo della scrittura, con l’operazione di sintesi, di omissione e di (ri)costruzione di sé che essa comporta. Ma non abbiamo ancora dato risposta alla domanda da cui abbiamo preso le mosse, posto che sia possibile una risposta: perché intitolare Le Georgiche un libro in cui si parla soprattutto di guerra? Lavorare la terra è già in Virgilio attività che si ricollega simbolicamente all’ambito del privato, contrapposta all’occuparsi di politica o al dedicarsi agli affari, all’essere coinvolti cioè nella vita attiva, nella vita pubblica. Anche nel linguaggio corrente “ritirarsi in campagna” o “coltivare il proprio orto” sono metafore fin troppo trite con cui si indica chi decide – o è costretto suo malgrado – a uscire dalla sfera pubblica o anche chi, in alternativa, non ha alcuna intenzione di entrarci. A guardar bene alla costellazione georgica appartiene l’attività stessa della scrittura, in fondo è a Sant’Elena che Napoleone scrive, o detta, le sue memorie e questo non è solo un accidente storico, ma è la cosa stessa che esige che sia così, attività analoga dunque a quella di chi coltiva la vite, pota le siepi o si occupa di apicoltura, attività e destino inevitabile per chi, uscito dalla lotta politica o dalla vita economica, nel suo ritirarsi – almeno questo vale nel caso di Simon – pare poi condannato a parlare sempre e comunque di quell’altra cosa, della sua vita di prima. Marco Bachini
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