La prima volta che ho sentito parlare de Lo stadio di Wimbledon ero uno studente di liceo. Fu la nostra insegnante di italiano e latino a citarlo in tono elogiativo come uno dei pochi esempi di letteratura italiana contemporanea a suo modo di vedere degno di nota. È risaputo che i classicisti e più in generale gli insegnanti tendono a non tenere in gran considerazione la contemporaneità, un po’ perché sempre “in ritardo con il programma”, un po’ perché abituati per deformazione professionale a occuparsi in modo esclusivo di opere e autori sul cui valore si è già fissato un giudizio critico ampiamente condiviso. La contemporaneità invece non offre di queste certezze, bisogna buttarsi, e la conoscenza dei maestri del passato è condizione forse necessaria, ma certo non sufficiente a garantire il valore del prodotto che ci si trova fra le mani. Ai tempi ricordo che mi incuriosì molto il titolo che sembrava far riferimento a vicende tennistiche di cui ero spettatore regolare e interessato. Il romanzo ho finito per leggerlo un mese fa e ovviamente non ha niente a che spartire con le attività sportive che si praticano sui campi in erba del club londinese.
Lo stadio di Wimbledon è la storia di un lento accostamento, di un’indagine condotta dal narratore sulle tracce di una personalità al tempo stesso centrale e minore della letteratura del primo novecento, uno che pur avendo frequentato tutti i grossi nomi che in quegli anni gravitarono attorno alla città di Trieste (Svevo, Saba, Montale) – lui stesso triestino – non ha lasciato alcuna traccia della sua attività artistica e intellettuale, uno scrittore che non ha scritto in sostanza. La persona reale a cui si è ispirato Del Giudice nella sua ricostruzione è quella di Roberto Bazlen, Bobi per gli amici, lettore vorace e cultore appassionato di filosofia e letteratura austro-tedesca di cui fu spesso il tramite nel contesto culturale italiano, consulente editoriale per diverse case editrici (Einaudi, Adelphi e altre), nonché poeta e scrittore a tempo perso. Proprio quest’ultimo aspetto della personalità di Bazlen è quello che sembra più intrigare il nostro narratore-ricercatore: perché una persona che ha dedicato tutta la sua vita alla letteratura, a frequentare gli scrittori e i poeti più celebri della sua città, non lascia nulla di sé, nessuna opera, se si escludono pochi frammenti, scambi epistolari con editori, con lo stesso Montale e una specie di romanzo in progress intitolato Il capitano di lungo corso? Dai suoi intervistati riceve risposte diverse, che chiariscono e non chiariscono e, come spesso accade in casi simili, ognuno finisce per avanzare ipotesi, azzardare interpretazioni: per alcuni fu il concetto troppo alto che aveva della letteratura a farlo desistere dall’idea di scrivere, per altri fu la sua lucida consapevolezza che già fin troppo si scriveva e si stampava senza che ci fosse bisogno che anche lui andasse a ingrossare le fila di quel mercato già saturo, già sovrabbondante, per altri ancora – e questa ipotesi pare per certi aspetti la più suggestiva – Bazlen non scrisse perché in fondo la sua vera indole era più quella del manipolatore di persone e di vite che non quella dello scrittore; era abilissimo a mettere in contatto persone che riteneva si sarebbero capite alla perfezione o a ispirare a Montale i versi di Dora Markus mostrandogli una fotografia dell’amica, era insomma un grande sensale della vita sociale e culturale, uno di quegli che girano attorno alle cose, che le corteggiano all’infinito senza però mai riuscire ad andare fino in fondo. Due cose colpiscono di questo scarno romanzo d’esordio (poco più di cento pagine) di Del Giudice: da una parte il gioco sottile che mantiene la narrazione sempre in bilico tra il resoconto giornalistico, il reportage fatto da un giovane letterato – o aspirante tale – che si mette sulle tracce di un maestro umbratile ed evanescente andando a intervistare alcune delle persone che lo conobbero meglio, e la finzione romanzesca (i fatti di cui il libro parla – i viaggi a Trieste e a Londra, gli incontri con le persone che conobbero Bazlen, etc. – sono evidentemente reali, ma non vengono raccontati come in un articolo di giornale, con nomi e riferimenti precisi, ma piuttosto lasciati fluttuare in una nuvola di indeterminazione quasi sognante); dall’altra il fatto che tutto risulta leggermente fuori fuoco nei sei capitoli di questo libro. E proprio questi due eventi, l’incapacità di mettere a fuoco le fotografie che gli intervistati gli mostrano durante i colloqui e la curiosa tendenza ad addormentarsi nei luoghi più disparati del narratore-investigatore, si ripresentano a più riprese a punteggiare il racconto, in più di un caso usati come veri espedienti teatrali per inframezzare le scene. Lo stesso titolo del romanzo annuncia questa strategia discorsiva in cui l’attenzione si impiglia nei dettagli, mentre ciò che si intuisce come centrale resta ai margini del campo visivo: lo stadio di Wimbledon non compare che per poche pagine, in occasione di una breve visita che il narratore fa all’All England Club, per ingannare il tempo in attesa del secondo e conclusivo incontro con la signora ebrea di Trieste, la Ljuba di Montale, che da ragazza aveva a lungo frequentato Bazlen. Il senso dell’evanescenza sembra creare rimandi incrociati e rispecchiamenti su piani diversi: è l’evanescenza del suo protagonista prima di tutto, della sua vita di scrittore mancato, di eminenza grigia e sfuggente del mondo letterario, è l’evanescenza dello stesso narratore, che si appisola, non riesce a mettere a fuoco le cose, forse non vuole, cerca la verità ma non vuole metterla a fuoco. È forte il rischio di perdere il senso della tangibilità delle cose e delle persone nelle nebbie di Wimbledon e, come nelle fiabe o nei miti all’esploratore di terre incognite o al pellegrino viene dato un pegno, per poter testimoniare al rientro a casa che è stato vero il viaggio e non sogno o invenzione, così anche il narratore riceve in dono un ricordo, un maglione che era stato di Bazlen e che lui tiene in braccio, lasciando la casa di Ljuba, “con la delicatezza con cui si tiene un bambino”, dice. Marco Bachini
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