«Il nome estetico per la dominazione del materiale, quello di tecnica, mutuato dall’uso antico che annoverava le arti tra le attività artigianali, nel suo significato attuale è di data recente. Esso porta i tratti di una fase in cui, analogamente alla scienza, il metodo appariva qualcosa di autonomi rispetto alla cosa oggettivata. Tutti i procedimenti artistici che dànno forma al materiale e si lasciano guidare da esso si raccolgono nell’aspetto tecnologico, anche quelli che ancora non erano separati dalla prassi artigianale della produzione di beni nel Medioevo, con cui, per resistenza contro l’integrazione capitalistica, l’arte non ha mai interrotto completamente il collegamento.
La soglia tra artigianato e tecnica nell’arte non è, come nella produzione materiale, la rigorosa quantificazione dei procedimenti, incompatibile con il telos qualitativo; e neanche l’introduzione di macchine; piuttosto è il prevalere del libero disporre dei mezzi da parte della coscienza, in contrapposizione al tradizionalismo sotto il cui involucro è maturato quel disporre. Dal punto di vista del contenuto l’aspetto tecnico è solo uno tra gli altri; nessuna opera d’arte è nient’altro che l’insieme dei propri momenti tecnici. Che lo sguardo sulle opere, che non vi scorge se non il modo in cui esse sono fatte, resti al di qua dell’esperienza artistica, è sì un topos dell’ideologia culturale utilizzato stabilmente in maniera apologetica, ma conserva qualcosa di verso relativamente alla sobrietà quando la sobrietà viene abbandonata. Per l’arte la tecnica è però costitutiva, poiché in essa si riassume il fatto che ogni opera d’arte è stata fatta da uomini, che ciò che in essa è artistico diventa un loro prodotto. Tecnica e contenuto vanno distinti; ideologicamente è solo l’astrazione a isolare il sovratecnico della presunta mera tecnica come se nelle creazioni di rilievo questa e il contenuto non si producessero a vicenda. […] Nella parola pretesca “messaggio” il rapporto dialettico di contenuto e tecnica è reificato in una banale dicotomia. La tecnica ha carattere cruciale per la conoscenza dell’arte; essa soltanto porta la riflessione all’interno delle opere; peraltro, solo chi parla il loro linguaggio. Poiché il contenuto non è qualcosa di fatto, la tecnica non delimita l’interno dell’arte, però solo a partire dalla sua concrezione si può estrapolare il contenuto. La tecnica è la figura determinabile dell’enigma nell’opere d’arte, razionali e prive di concetti al tempo stesso. Essa permette il giudizio nella regione di ciò che è senza giudizi. È vero che le questioni tecniche delle opere d’arte si complicano all’infinito e non si possono risolvere con una formula. Ma in linea di principio si possono decidere immanentemente. Con la misura della “logica” delle opere, la tecnica fornisce anche la misura della sospensione di essa. Certamente trattarla dall’esterno sarebbe gradito all’abitudine volgare, e sbagliato. Infatti la tecnica di un’opera è costituita dai problemi di quest’ultima, dal compito aporetico che essa obiettivamente si pone. Solo da questo compito si può evincere che cosa sia la tecnica di un’opera, se essa sia o meno sufficiente, così come viceversa il problema obiettivo dell’opera è desumibile solo dalla sua complessione tecnica. Se nessuna opera si lascia comprendere a meno che non sia compresa la sua tecnica, questa si lascia comprendere altrettanto poco senza la comprensione dell’opera. In quale misura una tecnica al di là della specificazione dell’opera sia universale o monadologica, varia nella storia, eppure anche negli idolatrati periodi di stili vincolanti la tecnica ha fatto in modo che quelli non governassero astrattamente l’opera, ma penetrassero nella dialettica della sua individuazione. In quale misura la tecnica abbia maggior peso di quel che voglia ammettere l’irrazionalismo estraneo all’arte, si può apprendere dal semplice fatto che agli occhi della coscienza, una volta presupposta in generale la capacità di quest’ultima di fare esperienza dell’arte, questa si dispiega in maniera tanto piú ricca quanto più profondamente essa penetra nella sua complessione. La comprensione dell’opera cresce con la comprensione della fattura tecnica. Che la coscienza uccida è una frottola; mortale è unicamente la falsa coscienza. Il mestiere rende l’arte commensurabile alla coscienza anzitutto perché è ampiamente apprendibile. Ciò che un insegnante biasima con rigore nei lavori dei propri allievi è il primo modello di una mancanza di mestiere; le correzioni sono il modello del mestiere stesso. Questi modelli sono preartistici finché ripetono esempi e regole già date; spingono avanti laddove i mezzi tecnici utilizzati vengono messi a confronto con la cosa oggettiva a cui si aspira. A un grado primitivo, oltre il quale peraltro di rado giunge l’usuale lezione di composizione, l’insegnante censurerà le quinte parallele e al loro posto proporrà modi migliori di condurre le voci; ma se non è una persona pedante, egli dimostrerà all’allievo che le quinte parallele in quanto preciso mezzo artistico per effetti intenzionali, come in Debussy, sono legittime, anzi che il divieto perde senso al di fuori del sistema di riferimento tonale. Il mestiere si lascia alle spalle la propria forma sostituibile e limitata. Lo sguardo esperto che va su una partitura, su un’opera grafica, si assicura, quasi mimeticamente, prima di ogni analisi se l’objet d’art ha mestiere e vivifica il proprio livello formale. Ma non ci si può fermare qui. C’è bisogno di dar conto del mestiere che si presenta anzitutto come un alito, un’aura delle creazioni, in singolare contraddizione con le idee dei dilettanti circa la capacità artistica. Il momento auratico che, in modo apparentemente paradossale, si lega al mestiere è la memoria della mano che delicatamente, quasi carezzevole, è passata sui contorni della creazione e nell’articolarli li ha anche addolciti. Di ciò dà conto l’analisi, che va di nuovo a parare nel mestiere stesso. Rispetto alla funzione sintetizzante delle opere d’arte, che tutti riconoscono, il momento analitico viene stranamente trascurato. Esso risiede nel polo opposto della sintesi, nell’amministrazione degli elementi di cui si compone la creazione; tuttavia non meno della sintesi esso inerisce, obiettivamente, all’opera d’arte. Il maestro di cappella che analizza un’opera per eseguirla in maniera adeguata invece di mimarla, rinnova una condizione di possibilità dell’opera stessa. L’analisi può raccogliere indizi di un concetto superiore di mestiere; in musica, ad esempio, il “flusso” di un brano: il fatto che esso non sia pensato in singole battute ma superando queste ultime, in legature; oppure che gli impulsi vengano sviluppati, proseguano, invece di cessare in ciò che si aggiunge. Tale movimento del concetto di tecnica è il vero gradus ad Parnassum. Solo nella casistica estetica ciò diventa davvero evidente. Quando Alban Berg ha risposto negativamente alla domanda ingenua se di Strauss non vada ammirata almeno la tecnica, egli aveva di mira ciò che non è vincolante del procedimento straussiano, che calcola con ponderazione una successione di effetti senza che sul piano puramente musicale uno scaturisca dall’altro o sia richiesto da esso. Tale critica tecnica di creazioni altamente tecniche viene peraltro ignorata da una concezione che afferma il principio della sorpresa in permanenza, e sposta la loro unità addirittura nella sospensione irrazionalistica di quel che per la tradizione dello stile obbligato si chiamava logica, unità. È ovvia l’obiezione per cui un tale concetto di tecnica tradirebbe l’immanenza dell’opera, proverrebbe dall’esterno, dall’ideale di una scuola che, come quella di Schönberg, nel postulato della variazione in sviluppo tiene ferma così anacronisticamente la logica musicale tramandata per mobilitarla contro la tradizione. Ma questa obiezione non centrerebbe lo stato di cose artistico. La critica di Berg al mestiere di Strauss è valida, perché chi rifiuta la logica è incapace della formazione integrale al servizio della quale è quel mestiere a cui Strauss era a sua volta vincolato. Certo, le rotture e i salti dell’imprévu già in Berlioz derivano da quanto è voluto; al tempo stesso però disturbano quest’ultimo, lo slancio del decorso musicale, che viene surrogato da una movenza piena di slancio. Una musica come quella di Strauss, tutta disposta sul piano temporale-dinamico, è incompatibile con un procedimento che non organizza in maniera concorde la successione temporale. Fine e mezzi si contraddicono l’uno con l’altro. La contraddizione non si acquieta però nell’insieme dei mezzi, ma si estende allo scopo, alla glorificazione della contingenza che celebra come vita libera ciò che non è altro che anarchia della produzione di merci e brutalità di coloro che la dominano. Con un falso concetto di continuità opererebbe anche la concezione di un progresso rettilineo della tecnica artistica, indipendente dal contenuto; movimenti di liberazione tecnici possono venir intaccati dalla non verità del contenuto. Quanto intimamente siano coesi tecnica e contenuto, contrariamente al convenu, l’ha dichiarato Beethoven quando ha detto che molti degli effetti che di solito vengono imputati al genio naturale del compositore sarebbero in verità dovuti unicamente alla sapiente applicazione dell’accordo di settima diminuita; l’autorevolezza di tale schiettezza condanna tutte le chiacchiere sulla creatività; solo l’oggettività di Beethoven riesce a rendere giustizia sia all’apparenza estetica sia a ciò che è non-apparente. L’esperienza di discordanze tra la tecnica, ciò che l’opera d’arte vuole, soprattutto il proprio strato espressivo-mimetico, e il contenuto di verità di essa, provoca talora rivolte contro la tecnica. Al concetto di questa è endogeno di rendersi autonoma a spese del proprio scopo, di diventare fine a sé stessa come abilità che gira a vuoto. A ciò ha reagito il fauvismo in pittura; analogamente lo Schönberg della libera atonalità per quel che riguarda la brillantezza orchestrale della scuola neotedesca. Nel saggio Problemi dell’insegnamento artistico egli, che più di ogni altro musicista della sua epoca è giunto a un mestiere coerente, ha attaccato espressamente la credenza nella tecnica unicamente vera. La tecnica reificata porta talvolta con sé correttivi che si avvicinano al “selvaggio”, al barbarico, al tecnicamente primitivo, all’ostile all’arte. Ciò che con pregnanza viene chiamato nuova arte è stato catapultato fuori da tale impulso; questo non ha potuto stare tranquillo in sé stesso e si è di nuovo trasformato ovunque in tecnica. Eppure non è stato affatto retrivo. La tecnica non è abbondanza di mezzi, ma l’immagazzinata capacità di adeguarsi a ciò che la cosa oggettiva esige obiettivamente di per sé. Questa idea di tecnica viene talvolta favorita piú dalla riduzione dei mezzi che dalla loro accumulazione, che li consuma. Gli scarni pezzi per pianoforte op. 11 di Schönberg, con la grandiosa goffaggine del loro fresco attacco, sovrastano tecnicamente l’orchestra della Vita d’eroe, della cui partitura complessiva di fatto si ode solo una piccola parte, tanto che i mezzi già non sono piú di aiuto al loro scopo immediato, la manifestazione acustica dell’immaginato. Ci si chiede se la seconda tecnica dello Schönberg maturo non sia ritornata alle spalle dell’atto di sospensione della prima. Ma anche l’autonomizzazione della tecnica che coinvolge quest’ultima nella propria dialettica non è meramente quel peccato originale della routine quale appare al puro bisogno d’espressione. A causa della propria stretta unione con il contenuto, la tecnica ha una legittima vita propria. L’arte ha di solito bisogno in misura mutevole di quei momenti a cui ha dovuto rinunciare. Il fatto che fino a oggi le rivoluzioni artistiche siano diventate reazionarie non è con ciò né spiegato né scusato, ma vi è comunque legato. I divieti hanno un momento regressivo, anche quello di un’eccessiva pienezza e complessità; non da ultimo per questo esso si attenua, se anche imbevuto di rifiuti. Questa è una delle dimensioni nel processo di oggettivazione. Quando, circa dieci anni dopo la Seconda guerra, i compositori ne hanno avuto abbastanza della precisione post-weberniana, in maniera impressionante nel Marteau sans maître di Boulez, si è ripetuto il processo, questa volta come critica dell’ideologia del nuovo inizio assoluto, dell’“azzeramento totale”. Quattro decenni prima, il passaggio di Picasso dalle Demoiselles d’Avignon al cubismo sintetico ha avuto probabilmente un senso analogo. Nel nascere e morire di allergie tecniche si esprimono le stesse esperienze storiche che nel contenuto; in ciò quest’ultimo comunica con la tecnica. L’idea kantiana della conformità a scopi, che in lui dà luogo alla connessione tra l’arte e l’interno della natura, è strettamente affine alla tecnica. Ciò grazie a cui le opere d’arte in quanto conformi a scopi si organizzano, in un modo che è negato alla mera esistenza, è la loro tecnica; soltanto grazie a quest’ultima esse diventano conformi a scopi. L’insistenza sulla tecnica nell’arte stupisce chi è gretto a causa della propria sobrietà: è fin troppo agevole accorgersi di come quest’ultima derivi dalla prassi prosaica, paventata dall’arte. In nessun luogo l’arte si rende tanto colpevole di qualcosa di illusorio quanto nell’aspetto imprescindibilmente tecnico del proprio incanto, poiché solo attraverso la tecnica, il medium della propria cristallizzazione, l’arte si allontana da quel prosaico. Essa fa sí che l’opera d’arte sia piú di un agglomerato di qualcosa di fattualmente presente, e questo piú è il suo contenuto.»[1] Andava letto tutto d’un fiato, tanto per suggerirne la densità concettuale. E ai fini della trasmissione era importante riannodare i passi adorniani sul materiale musicale e sulla tecnica, dal momento che questi due momenti risultano inscindibili quando si opera con il materiale musicale informatico. Ed ora, l’ultimo intervento musicale, su cui posa la cifra dell’enigma per il compositore di qualsiasi generazione: il Quartetto per archi n. 14 in Do diesis minore, op. 131 di Ludwig van Beethoven, ultimato nel 1826.[2] Antonio Mastrogiacomo
Note:
[1] Adorno T.W., Teoria estetica, pag. 285-290. [2] AmericanStringQuartet- Beethoven op.131 disponibile al link https://www.youtube.com/watch?v=Gx2KlpV_ZOk caricato da AmerString Quartet il 5 febbraio 2013. Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Francesco Panizzo. |
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