Più di una volta ci siamo ritrovati a raccontare il buono stato di salute di cui gode la città di Napoli per quanto concerne la Musica sperimentale, la musica elettronica, l’arte contemporanea. Almeno una volta al mese, da circa due anni, artisti internazionali transitano tra le braccia di Partenope per tenere concerti, workshop, masterclass, conduzioni d’orchestra. L’ambiente è divenuto finalmente più florido, smorzando notevolmente quegli sguardi malinconici rivolti al resto dell’Europa. Ma come se la stanno passando, in realtà, in quei posti da cui proprio i sopracitati artisti internazionali provengono?
Sono le ore 14:40 del 25 Aprile. Atterro a Barcelona, mentre in Italia i festeggiamenti per l’anniversario della Liberazione sono a pieno regime. L’esperienza di Mixtùr, festival di Musica Contemporanea e Sound Art, mi attende. È la prima volta che metto piede in Spagna, e con spirito da foreign fighter mi prometto di comprendere e approfondire l’ambiente artistico catalano nella sua interezza, senza confinare il mio agire soltanto all’esperienza con Fred Frith che, di lì a poco, mi avrebbe coinvolto. I primi passi nel capoluogo della Catalogna rivelano subito un ottimo segno: tutto è a portata di mano. Ogni punto della città è accessibile in modo semplice e veloce, e basta un veloce sguardo alla mappa per capire che ci sono tantissimi luoghi e spazi destinati alle Arti. Non fa assolutamente eccezione la Fabra i Coats, complesso che ospita proprio il festival Mixtùr, attivo sul territorio dal 2012. Il programma e gli ospiti della rassegna sono da capogiro: Ricardo Descalzo, Tristan Murail, Yuval Gotlibovich, Alexander Schubert, Mauricio Sotelo e, ovviamente, Fred Frith. La lista è molto più lunga, ma tutti gli artisti citati, oltre a tenere il proprio concerto, sono stati protagonisti di bellissime letture, masterclass e workshop. Non sono mancate tavole rotonde e installazioni permanenti che hanno arricchito lo spazio situato nella zona di Sant Andreu, a pochi minuti dalla Sagrada Familia. Ma che cos’è la Fabra i Coats? Un ex fabbrica di cappotti, ma più precisamente una art factory: un nuovo concetto di infrastrutture culturali che da supporto a talento, creatività e innovazione nella città catalana. La Fabra i Coat, posto all’interno di uno degli edifici più rappresentativi dell’era industriale della città, è anche uno snodo centrale nell’insieme delle art factories di Barcellona. Questa rete di infrastrutture è stata creata attraverso lo stanziamento molto sostanzioso di fondi pubblici, e in brevissimo tempo ha trasformato Barcellona in una capitale europea della creatività rivalorizzando vari edifici dislocati all’interno della città. C’è anche un altro “piccolissimo” dettaglio: le art factories hanno creato più 100.000 posti di lavoro, tutti a disposizione di menti creative. Spazi di lavoro, residenze, networking e workshop sono soltanto alcune delle possibilità che offrono queste “fabbriche dell’arte”. Senza aspettare l’aereo, la mente fa subito il viaggio di ritorno verso Napoli e corre subito verso i tanti spazi che hanno portato la città a vivere e godere di musica sperimentale e di arte contemporanea: gli spazi occupati e autogestiti. L’Asilo, l’ex OPG, lo Scugnizzo Liberato e tanti altri luoghi, ora destinati alla creatività grazie all’operato dei vari collettivi che li abitano, hanno fortunatamente occupato il ruolo che dovrebbe spettare a istituzioni e infrastrutture pubbliche, dando vita ad attività che non ho fatto fatica a ritenere decisamente similari a quanto visto nelle art factories spagnole. Subito dopo questo repentino spiffero di nostalgia, mi si manifesta un paradosso. I nobili princìpi e le logiche che animano il fare di questi collettivi, spesso rendono incompatibili i rapporti con istituzioni, fondazioni, e varie tipologie di enti: è proprio in netta contrapposizione a questi ultimi, ritenuti responsabili del degrado che affligge diversi settori di Napoli e dell’Italia intera, che gli spazi occupati e autogestiti sono nati. Un’eventuale replica del meccanismo spagnolo è impossibile. Si palesano, dunque, dei limiti, soprattutto di natura economica, allo sviluppo della vita creativa napoletana e italiana. Limiti al cui interno, però, si sperimentano indefessamente nuove modalità di fruizione dell’arte, nuove forme di istituzionalità dell’arte fondate su cooperazione, autonomia, indipendenza della cultura. E mentre il Museo MADRE sbava appresso a Liberato, la programmazione del San Carlo di Napoli non smette di deludere e il Conservatorio di Napoli stenta a offrire agli studenti – nonché contribuenti - tempi e luoghi per esprimersi, mi accomodo sulla mia poltrona della sala 2 all’interno de L’Auditorì de Barcelona. La platea è gremita, il pubblico eterogeneo, ma tendente alla giovane età. Riconosco i volti dei partecipanti a Mixtùr con cui ho condiviso tanti bei momenti. In cartellone c’è An Index of Metals. Inglese è il titolo della composizione. Italiano, il compositore: Fausto Romitelli. Austriaco l’incredibile ensemble che lo esegue: PHACE, una delle formazioni più innovative e versatili del panorama mondiale. Italiana è la lingua che attraversa i miei pensieri mentre il mio corpo è rapito dai suoni che riempiono l’atmosfera del teatro. Italiana è la mentalità secondo cui “con la cultura non si mangia, con l’arte non si mangia”. Europea, la smentita. Davide Palmentiero
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