I Talk Talk Articolo di
Manlio Palmieri I Talk Talk sono stati un gruppo dalla carriera a dir poco singolare, un caso forse unico nella storia del rock; hanno esordito nel 1982 con l’album The Party’s over, disco all’insegna del synth-pop tipico di quegli anni con i singoli Talk Talk e Today, consacrandosi all’interno del panorama musicale britannico nel 1984 con It’s my Life, che contiene due hit come la title-track e Such a Shame.
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La creatura di Mark Hollis non ha mai lambito le vette commerciali toccate dalle due formazioni inglesi di punta dell’epoca, gli eterni rivali Duran Duran e Spandau Ballet.
Nonostante la qualità della musica proposta, i singoli dei Talk Talk non sono riusciti a garantire al gruppo le posizioni in classifica raggiunte dalle band succitate, che potevano inoltre contare sull’avvenenza dei due frontman Simon Le Bon e Tony Hadley, qualità di grande presa sulle teenager di quegli anni della quale il gracile e bruttino Hollis non poteva per sua sfortuna avvalersi. Ciononostante, non si può dire che il gruppo non abbia avuto il successo che gli spettava in patria e, spesso in misura maggiore, all’estero (in Italia il singolo It’s my Life raggiunse la settima posizione). Nel 1986 la band pubblica Colour of Spring, disco molto valido che sembra però preludere a qualcos’altro: e infatti nel 1988 esce Spirit of Eden, capolavoro a cui spesso si fa risalire la nascita dello slow-core e del post rock, seguito dopo quattro anni di silenzio da Laughing Stock, altro album di livello assoluto che chiude la carriera della band. Nel 1997 usciranno Herd of Instinct e Fields and Waves degli O’Rang, formazione fondata da Lee Harris e Paul Webb, rispettivamente ex batterista ed ex bassista dei Talk Talk; del 1998 è invece Mark Hollis, prima e unica fatica a nome del cantante solista che si inserisce nel solco tracciato dagli ultimi due lavori della sua vecchia band. Spirit of Eden e Laughing Stock sono opere introverse e meditabonde che, se ascoltate con la dovuta attenzione, dischiudono tutto il loro immenso potere spirituale. Per questo e altri motivi i due album sono diventati, a mio avviso giustamente, oggetto di culto da parte di una nicchia di ascoltatori incalliti che ne ha riconosciuto e celebrato la grandezza. Un’attenzione un po’minore è stata dedicata invece a Colour of Spring, che quasi tutti gli addetti ai lavori reputano poco più che un ottimo disco di transizione. Sebbene io condivida questo giudizio, ritengo che sia proprio la sua natura interlocutoria a costituirne l’aspetto di maggiore interesse: nella sua metamorfosi da bruco a splendida farfalla la band ha dovuto per forza di cose assumere la forma di crisalide, ed è proprio nella cristallizzazione di questo momento di passaggio che vanno ravvisati gli elementi di continuità tra il periodo commerciale e la fase sperimentale della carriera dei Talk Talk, cosicché si possa parlare di evoluzione anziché di rivoluzione. Pubblicato dalla EMI e prodotto da Tim Friese-Greene, tastierista della band a partire dal secondo album, Colour of Spring vanta la presenza di due cori (di cui uno a voci bianche) e di una dozzina di musicisti in aggiunta ai componenti della band, tra cui il grande Steve Winwood all’organo. Il disco contiene ancora tracce smaccatamente pop dagli arrangiamenti densi e corposi che ricalcano quelli degli album precedenti, come Give it up e Living in another World, propulsa dall’organo e nobilitata da un trascinante riff di armonica. Il singolo Life’s what you make it ottiene gli stessi risultati con una maggiore economia di mezzi. Un groove di batteria, un riff di piano, un altro riff ma di chitarra elettrica, un rinforzo di organo, la voce di Hollis e qualche coretto: il pezzo è costituito dalla reiterazione e dalla combinazione di questi pochi elementi e sembra restituire in pieno il senso della massima che Hollis dirà nel 1998 in un’intervista a una tv danese e che sintetizza il pensiero musicale che sta alla base di Spirit of Eden e Laughing Stock: “prima di suonare due note, impara a suonarne una, e non suonare una nota a meno che tu non ne abbia un valido motivo”. Al contrario, la lunga e conclusiva Time it’s time possiede una struttura più articolata e momenti strumentali di grande pregio. Nell’altro versante del disco si collocano i due episodi più proiettati verso il futuro, April 5th e Chameleon Day. Si tratta di brani minimali nella costruzione ma allo stesso tempo ricchi di dettagli e di sfumature che li impreziosiscono come piccole ma lucenti gemme. Il primo è caratterizzato dalla perfetta e calibrata interazione fra pianoforte, fiati e organo sullo sfondo di un’ipnotica batteria e termina con un’estatica coda su due accordi maggiori che anticipa le atmosfere paradisiache di Spirit of Eden; il secondo ha un’ introduzione di fiati – anche in questo caso un segnale di quanto avverrà nell’album successivo, in cui i brani sono raccordati da piccoli bozzetti cameristici – che sfocia in un toccante duetto pianoforte-voce in cui i silenzi e le pause sono più importanti dei suoni. Ho volutamente tralasciato fino a ora le due tracce iniziali, più difficilmente inquadrabili in uno soltanto dei due filoni dell’album. Se la raffinatissima ballata I don’t believe in you dimostra ancora una volta l’ispirazione e il gusto negli arrangiamenti della band, è l’iniziale Happiness is easy a rappresentare, a mio avviso, il momento più significativo del disco: si tratta di un blues d’atmosfera che si prende tutto il suo tempo per decollare, disseminato di preziosismi strumentali che riempiono le pause del pianoforte come statuette nelle nicchie. Un brano rarefatto e incredibilmente misurato, che nonostante ciò conserva una certa immediatezza pop e si permette di contrastare la propria compostezza con il candore di un coro di bambini. I Talk Talk non potevano trovare biglietto da visita migliore per un album dal fascino affatto particolare, un’opera di transizione dal carattere, per una volta, non autunnale e nostalgico, ma primaverile e riccamente colorato. Manlio Palmieri
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a Valeria Cimò di Roberto Zanata WORMHOLES
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