Risulta difficile a pensare come sempre più la vita in paese abbia dovuto confrontarsi con i ritmi della città. Tempi addietro, infatti, questo scarto risultava particolarmente evidente - roba che in toni più o meno favolistici potrebbe rimpolpare il plot della favola il topo di campagna e il topo di città.
Almeno da quando sono nato io - cioè dal 1989 - ho notato come lo scarto si sia ridotto: come l’esperienza della città abbia sempre più colonizzato l’immaginario dei non residenti, al punto da conformarsi quale identità culturale in adozione. Così, la città traduce il suo modello e si riproduce in piccola scala su territori a lei lontani facendo leva sulle abitudini ormai consolidate proprie di questa nuova condizione. La riduzione dei tempi che segnavano allora la comunicazione tra questi due diversi territori ha modificato poi le distanze al punto che alcuni vivono il paese la notte e la città di giorno - una condizione di pendolarismo, questa, nota ai più. La differenza che mi preme segnalare in questo contributo sta nell’attuale percezione degli spazi della città e della campagna secondo un’idea che ridefinisce i primi quali luna-park in cui poter trovare l’intrattenimento finemente organizzato, i secondi quali oasi del benessere in cui poter ritrovare il contatto con la natura. Queste due diverse immagini palesano l’attuale mercato dell’esperienza, lasciando inevasa la questione del turismo che, proprio nella parentela immediata con la sua decisiva temporaneità, appartiene alla sfera dei ricordi da collezionare. Un archivio utile alla ricostruzione di questo progressivo adeguamento ai confini della città si trova nel cinema italiano, specie quello in bianco e nero, che su questa frattura aveva impostato parte della sua narrazione a contatto con la storia della cultura del nostro paese. Il solo esempio del comune di Brescello quale sede delle peripezie di Don Camillo e Peppone, nate dalla saggia penna di Guareschi, valga a mo’ di prova documentaria - solo la cronaca nera permette infatti al paese di guadagnare l’onore della cronaca. Ad ogni modo, la soluzione più immediata della differenza galleggia tra un passato che prevedeva il ritorno e un presente che contempla lo sradicamento. La città richiama le masse come i paesi caldi richiamano gli uccelli: la migrazione è consentita da ritmi di vita più consoni alla ricerca del cibo, unico vero motore della sopravvivenza. In questo modo, lo spopolamento del paese si pone come questione politica che viene affrontata nei sempreverdi termini del rilancio del territorio. Insomma, la sproporzione tra i due diversi paradigmi gioca un ruolo di primo piano ancora oggi, sebbene sia stata completamente rimossa la sua traccia. L’architettura misura meglio di altri medium questo status. L’edilizia residenziale infatti premia la città quale luogo di vivacità architettonica: le committenze varie, le diverse facilities richieste dai ritmi di vita cittadini, il diverso rapporto tra domanda e offerta sostiene l’architettura nella sua incessante risposta alla creazione di un ambiente interno per l’uomo. Seppure scontato, senza architettura la dimensione dell’interno sarebbe impossibile e l’uomo sarebbe aperto al solo esterno. Una volta un topo di campagna aveva accolto nella sua povera tana un topo cittadino, (suo) vecchio amico. Grossolano e modesto, aveva offerto tutti i suoi beni all’amico: avena, pezzetti di lardo, ceci e uva secca. Ma il topo di città provava disgusto per tutto e a malapena toccava con dente superbo il cibo. Alla fine il topo cittadino disse all’amico: «Perché trascorri la vita in campagna? Se verrai in città, certo vivrai meglio!». Queste parole stimolarono il topo campagnolo: gli amici balzarono fuori dalla tana e al di là delle mura della città entrarono in una ricca casa, mentre la notte occupava lo spazio centrale del cielo. Nella casa c’erano molte briciole (provenienti) da una grande cena. L’ospite, dopo che aveva posto il topo campagnolo su una veste di porpora, offrì all’amico ricche vivande. Il topo di campagna, felice senza preoccupazione, gustava volentieri il cibo. Ma all’improvviso un grande chiasso spaventò i topi: dei grossi cani entrarono nella stanza con alti latrati, mentre i topi correvano impauriti per tutta la stanza. Allora il topo di campagna, quasi morto per la paura, disse: «Tornerò subito in campagna. Quando giungerò nei campi, una povera tana mi proteggerà e lì passerò la mia vita restante, povero ma al sicuro. Addio, ti saluto». La contemporaneità riscriverebbe in pieno il testo di questa favola il cui valore sta appunto nel risultare da sempre in controtendenza al modello culturale che avrebbe da lì in poi colonizzato l’esperienza. Antonio Mastrogiacomo
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