Iosonouncane è il moniker scelto da Jacopo Incani, musicista e cantante sardo della scena indipendente italiana, laddove “indipendente” sta per estraneo alla logica e ai circuiti delle major e non per indie – etichetta che oggi in Italia ha assunto una connotazione di genere ben precisa e, a mio avviso, non particolarmente positiva –.
Se il termine “compositore” è forse troppo nobile per essere accostato a Incani, l’appellativo di “cantautore” non basta a inquadrarlo, dal momento che, come egli stesso sostiene in un’intervista per L’Internazionale (link in fondo alla pagina), quella del cantautore «è solo una categoria creata per mettere i prodotti sugli scaffali». Anche volendo imputare la frase a quell’iconoclastia che è prerogativa di ogni musicista che si rispetti, si può dire che in questo caso siamo effettivamente di fronte a una figura ibrida che con il mondo cantautorale inteso nella sua accezione più classica ha poco da spartire. Piuttosto, la proposta di Incani può essere accomunata a quella di Flavio Giurato, autore che a cavallo fra i ‘70 e gli ‘80 si è distinto per la qualità quasi filmica dei suoi dischi a tema, capaci di creare un universo sonoro e testuale variegato ma coerente ed estremamente vivido nelle immagini. Nel debutto di Iosonouncane, La Macarena su Roma (Trovarobato, 2010), tale compattezza è ottenuta grazie a più elementi: l’uso intelligente e calibrato dei campionamenti, che spesso intervengono in qualità di suoni “diegetici” a colorare di realismo le storie cantate; l’accurata selezione di poche idee musicali vincenti – spesso una sola – nella costruzione del singolo brano; la tematica comune dei testi, tutti ispirati a un episodio di cronaca. La varietà è invece assicurata dalla voce di Incani, che muta di registro per sottolineare i cambi di prospettiva e di intensità. Con il secondo album, DIE (Trovarobato, 2015), Iosonouncane perviene a una forma di concept-album molto legata al passato – si tratta, in sostanza, di una lunga suite di circa 38 minuti suddivisa in 6 tracce, lo stesso formato utilizzato da De André in Tutti Morimmo a Stento – e pure originalissima e radicale; il lungo lavorìo svolto da Incani sulla musica e sui testi finisce per fondere le due componenti in una materia omogenea, che risponde alle leggi di ripetizione e variazione proprie dell’arte musicale ma possiede altresì la potenza simbolica delle parole. Tra le tante letture che hanno ispirato l’album, svolge un ruolo particolarmente importante la raccolta poetica La Terra e la Morte di Cesare Pavese, da cui Incani trae la maggior parte delle parole-simbolo ricorrenti del disco: terra, morte, fame, sete, sale, sole, rive, mare, buio. La continua ripetizione e variazione di queste immagini delinea un paesaggio – fisico e metafisico – meraviglioso quanto brullo e inospitale; il sole è una presenza minacciosa, accostata alla luce quanto al buio – «sgorga il sole, buio come la terra» da Buio –; il mare è sconfinato, genera senso di libertà ma anche paura – «uomo che cade in mare» da Paesaggio –. Questa natura contraddittoria è egregiamente dipinta dalla musica, segnata da forti contrasti tra un brano e l’altro che si risolvono in un miracoloso equilibrio: nell’iniziale Tanca un’ossessiva drum machine, un bordone di canto a tenore sardo accompagnato da urla, delle tastiere elettroniche, un organo elettrico e un synth-bass creano, stratificandosi, un tappeto strumentale cupissimo, quasi industrial, sul quale avanza decisa la linea vocale di Incani; di contro, la successiva Stormi è l’episodio più orecchiabile del disco e scioglie tutta la tensione accumulata nel brano precedente; la lunga Buio fa cozzare nell’introduzione un serafico arpeggio di chitarra con un aspro canto a tenore; l’impetuosità di Carne si “scioglie” nella stasi ritmica di Paesaggio. A una solida idea di fondo si accompagna una scrittura musicale di qualità eccellente in ogni suo aspetto. La componente ritmica è curatissima e molto varia – l’incedere da carrarmato di Tanca, i tempi dispari di Carne, la pulsazione regolare e ossessiva di Mandria –; le melodie vocali sono nette e immediate ma per nulla banali, spesso in contrappunto con i fiati – Buio, Carne –; l’armonia è ricercata come quella del miglior progressive rock senza mai essere astrusa, e riesce ad alternare efficacemente momenti di tensione, distensione e sospensione. Ma i risultati migliori si hanno nell’arrangiamento, che opera una geniale sintesi tra la cultura musicale popolare – il canto a tenore, la chitarra sarda preparata –, il rock del passato – l’onnipresente organo elettrico, l’uso dei fiati mutuato dal Battisti di Anima Latina – e l’elettronica di consumo. Se Incani vorrà confermarsi come musicista intelligente e immune all’autoindulgenza, molto probabilmente abbandonerà questo stile così peculiare sin dal prossimo album. Intanto, il suo DIE sembra aver tracciato già un solco profondo in cui camminare per fare dell’ottimo rock d’arte, una via da seguire per recuperare nel presente lo spirito del progressive rock senza ricascare di continuo nei suoi ormai vieti stereotipi; in poche parole, sembra avere tutte le carte in regola per diventare un classico. Manlio Palmieri
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