This is Tomorrow è un racconto dedicato alle avanguardie architettoniche che si concentra sul periodo dal 1956 al 1976. È stato pubblicato nel 1999, primo di una trilogia che affronterà l’intera “Storia dell’architettura del Novecento” e nella quale confluiranno “Silenziose Avanguardie”, uno sguardo rivolto agli anni che procedono dal 1976 al 2000, e “Forme e Ombre”, studio riferito al periodo 1905 - 1933. Il fatto che This is Tomorrow sia stato immaginato circa due decadi fa e che venga riproposto oggi è significativo per alcuni passaggi.
Alla metà degli anni Novanta, le seconde e terze avanguardie ancora non erano state, nel primo caso, riabilitate e, nel secondo, riconosciute. Si guardava, allora, agli architetti radical e soprattutto ai radical italiani come fossero una iattura: sovversivi impudenti promotori di squillanti e utopici proclami, incapaci di costruire alcunché di serio. Ma forse l’intera dottrina si poteva masticare, digerire ed esaminare con più cura attraverso un percorso di critica operativa e di intuizioni che, contestualmente, la contemporaneità provvedeva a riconciliare con il passato. Ho sempre pensato che la storia oggettiva non esiste, e che viene influenzata dal punto di vista dei suoi interpreti. La stesura di This is Tomorrow fu così l’occasione per teorizzare che il Novecento fosse suddiviso in due principali epoche e che l’esatto momento di cesura e intersezione tra le due andasse individuato nell’inaugurazione, a Londra, dell’omonima mostra e nella nascita della cultura pop. Correva l’anno 1956: l’anagrafe della storia si riempiva di nuovi flussi, valori e fenomeni in pieno sviluppo ancora oggi. Prima di allora, dalla scoperta della relatività in poi, uniformità, standard, orologio, catena di montaggio e miti collettivisti avevano scandito il ritmo di un’era. A partire dal 1956 un vorticoso processo di valorizzazione del pluralismo delle idee si imprime in ogni fibra del tessuto sociale. È il tempo delle democrazie multiculturali e multietniche, il fermento squillante della protesta giovanile, la liberazione dei costumi sessuali, il beat, il pop e la bodyart, si spalleggiano con le teorizzazioni di McLuhan, la decostruzione, le nuove filosofie della scienza. E in questo momento di rottura e transizione il futuro, già insistentemente, indica le riforme prodigiose che apparterranno all’era del digitale e dell’elettronica. Tale periodo di straordinaria vitalità ha determinato anche i paradigmi di una nuova architettura, i cui principali interpreti vanno rintracciati in seno al Metabolismo, Situazionismo, architettura e design radicali, Megastrutture, Ecologismo, Anarchitettura, Disarchitettura, Dearchitettura. Tutte le correnti hanno contribuito a delineare strategie formative tanto sofisticate da dar vita a un processo di rinascita, fondata sulla leggerezza, la trasparenza, lo scambio di informazioni con l’ambiente, un più coinvolgente rapporto fra il corpo e lo spazio. Tra gli anni Sessanta e i Settanta le opere realmente innovative si contano sulla punta dellee dita di una mano: in molti casi il nuovo, seppur col suo slancio dirompente, ha faticato a emergere dalle comfort zone, dagli stilemi e dalle forme consolidate. Ma questo è tipico di ogni fase di transizione. L’importante è che la frittata era stata fatta e negli anni Novanta stava rivelando la sua natura. Nemmeno la pausa postmodernista, aveva infatti impedito alle idee radicali di continuare a circolare. Molti degli architetti più attivi sul campo stavano allora dimostrando con estrema esattezza che certe idee del passato potevano essere riprese e spinte in avanti. Diventava così innegabile che certe vocazioni e ispirazioni non si fossero polverizzate e che dagli anni Sessanta fossero migrate direttamente in altri tempi e in altri luoghi, confluite in un totipotente spazio della maturità. Qui, senza i principali problemi che li relegavano nella retorica dell’irrealizzabile e con il supporto delle recenti tecnologie informatiche, è stato possibile costruire edifici diafani, sottili e dalle forti valenze concettuali. Se Ito, Gehry, Coop Himmalb(l)au, Libeskind negli anni Sessanta e Settanta non avrebbero potuto innalzare, se non con inenarrabile difficoltà, quello che, oggi, propongono senza problemi, possiamo oggi dire di avere il Guggenheim a Bilbao, di Frank O. Gehry, all’aeroporto a Kansai di Renzo Piano, la Mediateca a Sendai di Toyo Ito, il Museo Ebraico a Berlino di Daniel Libeskind, la Kunsthal a Rotterdam di Rem Koolhaas. Quando fu il momento di pubblicare This is Tomorrow, chiesi all’editore di mettere il libro on line: chi lo voleva lo avrebbe potuto scaricare gratuitamente. Nel 1999, c’erano prodromi della rivoluzione della rete e intercettarli per dare a tutti la possibilità di vedere in anteprima il testo avrebbe anche aiutato il lancio della versione completa, corredata da immagini e dotata di sezioni antologiche. L’esperimento allora funzionò; sia i download che le vendite in libreria andarono oltre ogni previsione. Oggi, il testo viene riproposto esclusivamente nella versione online ebook e vi compare una introduzione inedita che intende rievocare il percorso che ha sospinto e incoraggiato il racconto di This is Tomorrow. Con un piccolo suggerimento, di rimettere gli orologi. Identificare dove il nuovo sia cominciato può servire a predisporre una nuova attesa consapevole, e può preparare a guardare, ancora una volta, dove finisce ieri e quando comincia dopodomani. Luigi Prestinenza Puglisi
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