Pubblicato il 18 agosto 2017 dalla Caroline Records, To The Bone è l’ultima fatica discografica di Steven Wilson, che a distanza di due anni dal concept-album Hand. Cannot. Erase. – in mezzo, l’EP 4½ – si cimenta in un disco nello stesso tempo meno ambizioso e più rischioso del precedente: una semplice raccolta di canzoni, che tenti di suonare “pop” senza rinunciare a una certa complessità di fondo nella musica e nei testi.
I nove minuti di Detonation, del tutto naturali per un musicista dalla formazione progressive e abituato al formato esteso della suite, spiccano in un album dominato da brani di media durata, che “flirtano” con la forma canzone pur senza sposarla quasi mai in pieno. La volontà di Wilson è quella di deviare da uno stile consolidato che non lo soddisfa più, affrancandosi dalla nomea di nostalgico dei seventy che, nello stesso tempo, appiattisce la sua personalità e sminusice la vastità del suo retroterra musicale. La sfida era già iniziata con Hand. Cannot. Erase., che conteneva una title-track dal gusto decisamente pop e faceva uso dell’elettronica in Perfect Life, un “simil trip-hop” per dire la verità abbastanza insapore. In To The Bone il processo di svecchiamento compie un altro passo in avanti; la fonte d’ispirazione non è più il progressive rock degli anni ‘70, ma il pop di qualità del decennio successivo: Peter Gabriel, Kate Bush, Prince e perfino gli Abba – palese il richiamo al gruppo svedese in Permanating – sono citati dallo stesso Wilson come riferimenti musicali di questo nuovo corso. Si tratta di un’operazione sicuramente coraggiosa, ma non così rivoluzionaria come sembrerebbe. Sin dai tempi dei Porcupine Tree, infatti, Wilson ha sempre dimostrato di possedere una notevole vena melodica – si pensi alla delicata ballata pianistica Lazarus, dall’album Deadwing – che pervade anche molti dei brani estesi della sua carriera da solista – Deform To Form A Star da Grace For Drowning e Drive Home da The Raven That Refused To Sing, a titolo di esempio –. Inoltre, i vecchi modelli non vengono affatto abbandonati, ma tutt’al più recuperati in una fase più tarda della loro produzione: l’assolo di chitarra suonato da Paul Stacey in Refuge richiama alla memoria i Pink Floyd post The Wall e, nella sezione che segue il secondo ritornello di The Same Asylum As Before, pare di ascoltare gli Yes di Tempus Fugit. Il desiderio di rinnovarsi e di mischiare le carte in tavola, pur encomiabile, non basta dunque a colmare le lacune di un album solo parzialmente riuscito. Wilson è di certo un musicista intelligente e colto, molto abile nell’assimilare e rielaborare la musica del passato e del presente, ma probabilmente non ha il guizzo e l’originalità del genio. Se nell’ambito del progressive tali carenze possono essere compensate dall’abbondanza di spunti musicali e dai pregevoli interventi dei solisti; in un genere come il pop, in cui spesso la riuscita di un brano è determinata da una sola idea vincente, i limiti di scrittura emergono con maggior forza, e la sensazione di già sentito è più difficile da mascherare. E così la title-track sfodera una melodia orecchiabile, che però non riesce a decollare; Nowhere Now tenta la fortuna con un riff di piano che vuole essere accattivante, ma rimane nell’anonimato; The Same Asylum As Before combina in maniera non del tutto convincente una strofa cantata in falsetto dal sapore AOR, un ritornello arioso e un intermezzo psichedelico con tanto di assolo à la Pink Floyd. Forse è proprio Permanating, la canzone più squisitamente pop e sbarazzina, a rappresentare il miglior momento del versante “solare” del disco, col suo divertente mix di stereotipi del pop di oggi e di ieri – la voce in falsetto, gli accordi di piano a ottavi –. Wilson conferma di essere maggiormente a suo agio nei brani più riflessivi e “lunari”, tra i quali si annoverano gli episodi meglio riusciti dell’album. Ninet Tayeb, che aveva già collaborato con il musicista britannico in Hand. Cannot. Erase. e 4½, presta la sua voce a Blank Tapes e Pariah. La prima è un delicato bozzetto folk, in cui però il registro sporco della cantante israeliana appare fuori contesto; la seconda è invece una delle canzoni migliori del disco, caratterizzata da una bella melodia vocale sorretta da un arrangiamento in crescendo molto toccante. Ma il capolavoro è la conclusiva Song Of Unborn che, ironicamente, è insieme a Detonation il brano più “wilsoniano” del lotto. Il pianoforte, appena increspato dal battito di una drum machine, disegna un’armonia sofferta e introversa che sfocia in un ritornello epico. Nel cuore del pezzo, un coro celestiale si libra su un tappeto di pianoforte e chitarra acustica, per poi esplodere nuovamente nel ritornello. È il momento più sincero dell’album, quello che riesce a scavare più a fondo, “fino all’osso”. Discorso a parte merita la componente elettronica, che Wilson ha dimostrato di saper utilizzare intelligentemente in passato – si ascolti la claustrofobica Index, da Grace For Drowning –, ma che in questo lavoro è sfruttata con risultati alterni. Se in Refuge i suoni programmati rafforzano in maniera un po’ prevedibile l’incedere del brano, in Song Of I – con la partecipazione della vocalist Sophie Hunger – ne costituiscono l’ossatura portante, dipingendo un’atmosfera oscura e conturbante che rievoca però fin troppo i Nine Inch Nails. L’uso più originale del mezzo lo fa proprio la mini-suite Detonation, in cui i bassi pulsanti e il battito elettronico contrastano con gli arpeggi serafici della chitarra, prima che il tutto deflagri in un serrato prog-rock. Sebbene verso il finale il brano inizi a mostrare la corda, si percepisce chiaramente come sia ancora questo il terreno più agevole per Wilson, un terreno in cui il musicista ha la possibilità di giocare con schemi collaudati che funzionano sempre alla grande. Se gli episodi più a fuoco dell’album sono anche quelli più legati al passato, evidentemente la metamorfosi dell’ex Porcupine Tree non è ancora completa. Ci si augura che Wilson trovi a breve la sua vera identità, che sia sepolta tra le certezze di ieri o nascosta tra gli incerti sviluppi del domani. Manlio Palmieri
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