Nell’ultimo secolo del millennio appena trascorso abbiamo assistito all’irrefrenabile nascita di centri di diffusione della cultura musicale; tra essi un ruolo decisivo è stato svolto da quelli popolarmente definiti spazi occupati. Presa coscienza dello scarto temporale, nel 2017 dobbiamo ancora riconoscere il merito agli spazi occupati per il ruolo attivo di diffusione di musiche altre non ascoltate altrimenti. Dobbiamo proprio?
In altri termini la questione sarebbe: ha senso oggi proporre musica allineata al paradigma dell’industria musicale negli spazi che si definiscono non allineati? Forse sì, proprio nel momento in cui questi spazi si pongono come alternativa pur lasciando immutata la loro funzione come luoghi di intrattenimento. La trasformazione di alcuni di questi spazi occupati in spazi deputati alla valorizzazione del tempo libero in forma indipendente pone un interrogativo sulla fruizione degli stessi. Le pratiche orizzontali che sustanziano il quieto vivere delle strutture in questione lasciano il tempo che trovano ogni qual volta si impone una pratica verticistica nel prendere decisioni se e quando la partecipazione del tutti viene meno. Meglio non darne traccia, con una burocrazia orale attraverso cui si muovono le fila della partecipazione e dell’agire comune. Si può leggere ad esempio: non pensare una rassegna musicale come semplice momento di intrattenimento, ma come uno spazio in cui tutte e tutti possano riappropriarsi del diritto alla libera fruizione della cultura e del divertimento nelle città. Può essere una buona cosa ma quando fai pagare un biglietto già imponi quel grado di separazione che sustanzia la consueta offerta svariatamente culturale. L’ideologia al fondo di questo habitus culturale sta nel considerare l’arte come strumento di sovversione e non, semmai, sovversione degli strumenti. Insomma, al fondo c’è quell’antico gioco dialettico tra estetizzazione e politicizzazione dell’arte - Berlusconi ci ha costruito un ventennio. Appunto, estetizziamo gli spazi attraverso l’arte. Un gioco non diverso da quello che pervade la costante offerta di intrattenimento non solo televisivo. La cosa che più è degna di essere ragionata è che, in fondo, non ha senso proporre musica che già nel suo processo di nascita, sviluppo, produzione e distribuzione è permeato di quel paradigma della separazione su cui si sostiene il gioco del capitalismo in uno spazio che fa dell’anticapitalismo la sua bandiera. Non basta che uno spazio sia occupato per definire quello che succede lì dentro effettivamente politico; bisogna che quello che lo sta animando dischiuda un fare intimamente politico. La logica pubblicitaria attraverso cui si dipana l’offerta è la stessa che agita la consueta programmazione delle serate comuni. Ci preme ricordare non esiste una buona o una cattiva pubblicità: esiste solo la pubblicità. E il pubblico è decisamente lo stesso. Non deve essere necessariamente fedele alla linea. Non me ne si voglia: chiaramente, non possiamo fare di tutta l’erba un fascio. Solo grazie all’agire di alcuni spazi e di alcuni artisti una fruizione politicamente diretta ed attiva è stata possibile. Ad esempio, a Napoli esiste un posto, il 76A, che mi sembra praticare in tutti i sensi una corrispondenza biunivoca tra teoria e prassi nel portare avanti un certo modo di pensare la musica come momento che vive della collettività. Poi ci sono quegli spazi che ospitano anche artisti che non disdegnano il mondo dello spettacolo tipo i 99posse (spero di non essere l’unico che ricordi dell’applauso fattogli tributare da j ax in the Voice dopo la presentazione del loro fratello Valerio Jovine) e quelli che si muovono in un’ottica affine ai locali dove puoi ascoltare musica dal vivo. Certo, farlo in uno spazio occupato ti permette di bere e soprattutto fumare nel mentre; tranquo fratello, puoi farlo anche al Postepay Roma Rock - sarebbe a dire Le capannelle quando ospitano i concerti dell’estate. Insomma, mancano persone e strutture che considerino realmente quello che fanno, non contaminati dall’ottimistica ideologia del fare. Gli spazi occupati devono essere interpreti di una modificazione della proposta, partendo dal presupposto che l’arte non è un semplicistico fine ma un prezioso strumento di consapevolezza critica. Antonio Mastrogiacomo
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