Qualche mese fa un video ha iniziato a circolare sui social e poi in diversi giornali a causa di una questione che tende a riguardare un po’ tutti: il Millenial Whoop.
Di che si tratta? Con la parola millennial ci si riferisce a quanto accaduto dal 2000 in poi; whoop significa letteralmente grido ma può essere tradotto anche con “fare baldoria”. Le due parole, unite insieme, formano la locuzione millennial whoop, con la quale si intende indicare quella sorta di “groove vocale” che caratterizza alcuni prodotti musicali così ben fatti da permanere per svariati mesi nelle radio e in vetta alle classifiche musicali di ogni sorta. L’esempio che apre ogni piccolo video-documentario sul Millennial whoop è probabilmente quello più calzante: si tratta del whoo che caratterizza il ritornello di California Gurls di Katy Perry (e Snoop Dogg). I più snob potrebbero prontamente rispondere che è normale, che chi apprezza la musica pop appartiene alla stessa categoria di persone alle quali piace mangiare lo stesso pastone di sempre rimaneggiato. Eppure, le indagini dei più attenti mostrano che nel giro di pochi anni lo stesso whoo è stato ripreso da altre cantanti indubbiamente pop, come nel caso di Carly Rae Jepsen in Good Time e la ex disney-star Demi Lovato in Really Don’t Care; ciò non toglie che anche altri artisti ufficialmente appartenenti al regno “alternativo” non sono riusciti a esimersi dalla tendenza del Millenial Whoop: è il caso del gruppo di indietronica Chvrches, in The Mother We Share e del cantautore Frank Ocean “Ivy”. Teoricamente, l’elenco continuerebbe, eppure le altre canzoni proposte, come Turn Up the Music di Chris Brown, rivelano non appartenere del tutto al Millennial Whoop. Infatti, sebbene possa sembrare facile ritrovare un ooh simile a qualcosa di già ascoltato prima e gridare allo scandalo – o peggio, al plagio – bisogna drizzare bene le orecchie e fare attenzione. Il Millennial whoop è dovuto a un salto dalla quinta della scala a una terza per poi tornare sulla quinta, cosa che non accade in tutti i brani che popolano i documentari riguardanti questo fenomeno. Nonostante l’analisi musicale di questi frammenti sia prossima allo 0, il millennial whoop non ha fatto che riportare a galla che praticamente in tutti i generi la musica prima o poi ha a che fare con la problematica del senso della ripetizione. Gli ooh di un brano pop di successo non sono troppo distanti dai jingle pubblicitari ben fatti, così come nelle avanguardie un esempio calzante è la corrente minimalista. Un’altra problematica sollevata dal Millennial whoop è di tipo quasi alchemico: è possibile comporre un brano che riprende un riff che ha già funzionato in passato così da assicurarsi qualcosa di “nuovo”, magari di pari successo? E, conseguentemente, la produzione seriale di brani caratterizzati da frammenti che diventano ossessivi, quanto può far guadagnare? E in quante riproduzioni analoghe? Chiaramente, essendo la musica qualcosa di diverso dal calcolo delle probabilità, non è dato avere risposte. La morale della favola è che non è detto che alla base del Millennial Whoop ci sia un produttore da applaudire o, nel caso di sedicenti critici musicali, da guardare dall’alto in basso: a determinare il whoop potrebbero esserci delle semplici quanto ancestrali attitudini armoniche dovute a epoche storica, posizione geografica, background culturale. “Se vuoi capire un popolo ascolta la sua musica” (Confucio) Ambra Benvenuto
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