«Dopo aver incontrato i loro fedeli fan, si ritrovarono nella stazione centrale pronti a viaggiare insieme in uno scompartimento precedentemente prenotato. Le loro fedi erano tanto diverse, tuttavia ogni praticante aveva qualcosa in comune con l’altro: quel profondo senso di comunione tra corpo e spirito nelle cui pieghe albeggia l’umano. Così, quella chiamata ad un concilio straordinario della religiosità musicale non li aveva colti di sorpresa né presi alla sprovvista. Sapevano che col tempo le differenze tra loro erano state smussate al punto da scomparire. Se ne rendevano conto soprattutto quando socializzavano il proprio lavoro col pubblico, nella fruizione cosiddetta live. C’era la confessione cattolico colta, l’ebraismo elettroacustico, la tradizione protestante jazzistica, la reggae sciamanica e tutte le confessioni che potete immaginare, nel rispetto fiero delle minoranze, delle sottocategorie, dei sottogeneri, ognuno col proprio pubblico di fedeli.
Così, intrapresero un viaggio, muto, tra di loro. Effettivamente non si parlarono: ognuno aveva le orecchie piene degli auricolari con cui impiegare il tempo da trascorrere, ché il dialogo crea confusione, la musica armonia. Quindi, erano ben contenti di viaggiare ad occhi chiusi, in attesa di partecipare al suddetto concilio. La convocazione, avvenuta mezzo posta elettronica, era piuttosto ondivaga: dovevano presentarsi in una mensa militare, dove avrebbero albergato fino alla fine dei lavori.» La storia potrete continuarla voi, semmai dovesse piacervi l’incipit. E mandare il prosieguo alla redazione, come una bottiglia lasciata viaggiare nel mare della rete. È un modo come un altro per introdurre la questione della reificazione del rito musicale, che consta di elementi così affini tra generi così diversi. che poi la metafisica dei consumi abbia sostituito la metafisica della religione, lo facciamo decretare dalle masse che prendono d’assalto le sedi dei concerti di massa. Se volete chiarimenti in merito, chiedeteli ad un fan dei one direction: può essere più esaustiva una chiacchierata con lui che un saggio di un grande musicologo. Quello che vorrei sottolineare è che la forma concerto live viaggia su binari che ne assicurano una fruizione a temperature così fredde che non c’è rischio possano sbullonarsi per il caldo. Qualsiasi sia il genere musicale, il pubblico si adegua pienamente ad una forma codificata diventata tradizione, che si apre con un biglietto da pagare, spesso e volentieri, e si chiude con un applauso. Si tratta di una ritualità in cui i celebranti non parlano col pubblico, come stessero in televisione. Non c’è relazione se non con gli sguardi. E non c’è omelia se non pubblicitaria, come bastasse a rinsaldare i rapporti tra vasi più che mai non comunicanti. Da quando la musica si indossa come un abito, da quando ce la portiamo addosso per riterritorializzare i nostri spostamenti, urbani e non, abbiamo toccato con mano il cambiamento di funzione che le era stata assegnata fino all’inizio della riproducibilità tecnica: abbiamo visto ridurre il suo grado di separazione nelle nostre vite, al punto da costruire una vita a misura di musica. Basta assistere all’invasione della stessa in ogni momento del nostro vivere quotidiano: la troviamo al bar e al ristorante, al negozio e in palestra, a beneficio di tutti nella creazione di un’atmosfera. La musica live ha incontrato, dopo una prima stagione fortemente poieutica che ha lavorato sulle sue condizioni ritenute decisamente non neutrali, un periodo di stasi fortissimo che si tramanda fino a noi, immutato. La comunicazione pubblicitaria annuncia l’evento, fatto dall’unione di fedeli e celebranti in un particolare luogo ad essi deputato. Si assiste alla funzione musicale religiosa senza poter intervenire, nella separazione che permette la condivisione. Come la liturgia vive di momenti ben precisi, così anche la scaletta di un concerto è intessuta della stessa logica. L’eucarestia diventa il pezzo famoso da concedere al pubblico affinché si senta in comunione con la celebrazione musicale. E questo lo puoi rintracciare soprattutto nel bis. La benedizione è tutta nell’applauso, come chiusura del rito. Questo scritto, chiaramente non esaustivo, vuole sollecitare il lettore sulla standardizzazione della forma concerto: qualsiasi sia il genere performato, le logiche che assicurano la fruizione live del consumo musicale lo hanno inscatolato per benino in una forma che nessuno controlla, anzi, tacitamente, controlla chi la tramanda. Così come le tante religioni hanno comunque in comune il rito religioso, così anche le tante musiche hanno in comune questa condizione. Forse che alla fine sono tutte uguali? Antonio Mastrogiacomo
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