SPECIALE 44° FESTIVAL MONTPELLIER DANSE
Speciale a cura di Sara Maddalena
Il Festival si configura come un contesto privilegiato per incontri internazionali, in cui la diversità culturale e le esperienze performative provenienti da realtà eterogenee costituiscono un valore aggiunto, contribuendo al raggiungimento di risultati di eccellenza sotto molteplici aspetti. In un momento storico come quello attuale, tale caratteristica e il relativo obiettivo assumono una rilevanza particolarmente significativa.
Un ulteriore tratto distintivo dell’evento risiede nel suo impegno a sostegno della creazione artistica, garantendo una programmazione culturale di alto profilo e di indubbio valore. L’edizione in questione, la 44a, rappresenta un momento di transizione emblematico, segnando il congedo formale di Jean-Paul Montanari dal ruolo di direttore, in perfetta sintonia con il rigore e la passione che hanno sempre contraddistinto il suo operato e dopo decenni di dedizione che hanno contribuito in modo determinante a consolidare la reputazione e l’importanza del Festival nel panorama europeo. |
L’evento si caratterizza per un’accurata selezione di artisti affermati a livello internazionale, accompagnata dalla valorizzazione di nuove proposte e talenti emergenti. Oltre a rappresentare un’occasione di fruizione estetica, il Festival si propone come un luogo di riflessione critica sulla danza e sul contesto culturale in cui essa si inserisce. Tale approccio lo distingue da un festival di stampo convenzionale, evidenziandone l’intento di promuovere e sostenere gli artisti con l’obiettivo di elevare il dibattito culturale.
Come sottolineato da Montanari, l’aggettivo “cosmopolita” non si esaurisce nel significato di “internazionale”, ma abbraccia una visione più ampia e articolata, che si estrinseca nel dialogo e nell’interazione tra identità diverse. Un esempio di proficua commistione già lo si percepisce in uno tra i primi spettacoli visti per i lettori di PASSPARnous, e presentato da un coreografo che fa parte di quei grandi nomi già ben noti al pubblico e da esso apprezzati. Josef Nadj presenta Full Moon: il noto coreografo di origine ungherese, celebre per la sua ecletticità, per le sue collaborazioni con artisti di diversa provenienza, lavora in questo caso con danzatori africani, tutti uomini, provenienti da diversi Paesi. Ci si potrebbe allora chiedere in che misura è presente la danza africana in questo spettacolo. Ebbene, essa può essere riconosciuta in certi movimenti, nella particolare energia che caratterizza questo spettacolo e che spiega la scelta di un gruppo di danzatori esclusivamente maschile, ma per il resto le caratteristiche proprie alla danza contemporanea sono prevalenti - seppure si possano rinvenire in essa altre influenze, come del resto è normale che sia. Lo spettacolo fin dall’inizio provoca immagini tanto suggestive quanto criptiche. Il coreografo stesso, abitando uno spazio di luce a lui consacrato, impersona una inquietante figura vestita in abito, che indossa una maschera, e che propone movimenti che potrebbero richiamare il mondo delle marionette. Si tratta di un fantoccio da altri manipolato? O è lui a manipolare il gruppo di danzatori? O sono entrambi elementi di un disegno più grande? La presenza, in una delle sequenze successive, di un filo che si dipana tra i danzatori, a loro volta sapientemente illuminati, invoca invero il medesimo immaginario. Chiara risulta fin dall’inizio anche l’importanza sia del gruppo, che del singolo che lo compone, grazie anche alla luce che ne mette in risalto la fisicità. I danzatori sono vestiti con pantaloni scuri, a torso nudo e a piedi nudi. Si evidenzia in tal modo il rapporto tra i loro corpi, le direzioni che prendono insieme, quasi personaggi di un quadro o di diversi quadri che si susseguono, che, per il particolare dialogo relazionale e il sostegno reciproco del gruppo e dell’individualità, potrebbe ricordare la struttura di uno spartito di musica jazz, proprio come quella che accompagna la pièce. Rimane però qualcosa di dissonante, di non chiaro, che crea un sottile malessere per la sua incomprensione. Alla fine dello spettacolo danzatori e coreografo, tutti indossano maschere. Si tratta di crescita? Adattamento? Assoggettamento? Omologazione? Il pubblico interpreta diversamente le metafore, ma nel complesso apprezza lo spettacolo per ragioni estetiche e per la forza che trasmette. ![]() Un’ibridazione di tecniche emerge con straordinaria potenza nello spettacolo di Arkadi Zaides, The Cloud, autentica rivelazione di questa edizione del Festival, acclamata tale dal pubblico, dalla critica e dallo stesso direttore che, durante la cerimonia conclusiva, ne ha celebrato i meriti. Cosa rende così particolare questa creazione in cui la danza condivide il palcoscenico con altri linguaggi? È l’audace originalità della proposta che, pur radicandosi parzialmente nel percorso artistico personale di Zaides, si distingue per la sua acuta attualità politica e per la straordinaria capacità di raccontare il mondo e stimolare riflessioni, spesso scomode. The Cloud, evoca evidentemente la tragedia di Chernobyl del 1986, ma anche lo spazio di archiviazione dei dati. Se permane infatti un legame con quella forma di "danza documentaria" che caratterizza la sua ricerca, qui il vissuto dell’artista di origine bielorussa viene narrato direttamente da lui al pubblico, presente in dispositivo bilaterale, come se si trattasse di una sorta di lettura all’intelligenza artificiale, che trascrive e rielabora su degli schermi, con il contributo visibile e sapiente di ingegneri informatici, del suono, in scena. L’interazione culmina quando l’IA dialoga con un interprete a cui Zaides passa simbolicamente il testimone - un danzatore che incorpora e traduce in movimento i gesti di coloro che furono chiamati "liquidatori", quegli eroi dimenticati che affrontarono le conseguenze immediate del disastro nucleare. Viene ricreata quindi una nuova verità collettiva attraverso le scelte operate nel fornire i dati e rielaborarli, gli errori nel riceverli, e la presenza degli astanti. Nessuno spettatore può uscirne indifferente, tutti fanno parte di quest’esperienza, della storia e della sua rielaborazione - con i pericoli che essa comporta - e sono pertanto chiamati a riflettere.
L’esperienza autobiografica è trattata molto diversamente dalla coreografa danese Mette Ingvartsen con RUSH in cui propone una rivisitazione di alcuni suoi spettacoli in collaborazione con la danzatrice belga Manon Santkin: è un momento di condivisione, di ricerca e di riflessione sulla danza, molto promettente in quanto tale, e un po’ deludente per gli stessi motivi. È una forma di metateatro, di metadanza? La danzatrice parla, tanto, troppo forse; il racconto inizia ancora prima che l’artista sia in scena, mediante la condivisione di dettagli di problematiche intime relative al quotidiano degli artisti, al corpo, essendo esso al centro del loro lavoro. Del resto, la danzatrice lo espone subito: in un ambiente bianco sfolgorante, nuda, si muove a gattoni; una maschera sulla nuca sovverte il punto di vista e strania il percepire del movimento, ed è sufficiente a promuovere interrogativi sul corpo, sulla deformazione, su quello che vediamo e come lo interpretiamo. Lo spettacolo non ha finalità didattica, ma il pubblico non lo percepisce come uno spettacolo a sé stante, poiché è composto da spiegazioni ed estratti di altri spettacoli, con parentesi di coinvolgimento del pubblico in giochi imbarazzanti e accattivanti, come la riproduzione a più voci di un orgasmo. L’interprete ha l’opportunità di esibirsi in prove di notevole abilità, sia dal punto di vista attoriale che per quanto riguarda la gestione del corpo e degli oggetti con cui interagisce; nonostante ciò, la complicità e l’efficacia nel coinvolgimento non si rivelano sufficienti, e sorgono dubbi riguardo al formato scelto per lo spettacolo e alla sua deriva autoreferenziale, che impedisce di apprezzare appieno quanto, in origine, poteva essere una proposta meritoria, generando invece una certa incomprensione e frustrazione. Anch’essa talvolta un po’ criptica, ma evocatrice, risulta la proposta dell’importante coreografo e danzatore Dimitri Chamblas, che realizza takemehome, in collaborazione con la celebre musicista Kim Gordon, fondatrice e membro del gruppo Sonic Youth. In una sera d’estate, nello spazio all’aperto dell’Agorà, un grande dirigibile aleggia sul palco. Cambia colore, ma il suo vero significato e il suo scopo rimangono un po’ misteriosi. Un senso di attesa per qualcosa che sta per accadere, una difficoltà incombente, si mescola alla vitalità, al senso di abbandono e alla tristezza. Non si tratta solo di un concerto, né solo di danza, ma piuttosto di un modo unico di eseguire una performance che evoca contraddizioni della nostra realtà tra assurdo, sconforto e bellezza, con una forte dimensione politica. Nove danzatori incarnano infatti uno spaccato di realtà scomoda, ognuno di loro è chiamato a portare il bagaglio di sofferenza e di umanità degli emarginati nelle grandi città, spesso trascurati da una società che subisce la loro esistenza senza riconoscerla appieno. La musica è una parte vitale dello spettacolo, gli strumenti in scena essendo protagonisti, e aggiungendo nuances controculturali con un’energia intensa e cruda che incoraggia modi di muoversi diversi. I danzatori eseguono movimenti a volte nervosi e invece a volte lenti fino all’immobilità, sottolineando il disagio, e la difficoltà di trovare e mantenere l’unità del gruppo, che quando invece si manifesta, lo fa con forza. La presenza di Salia Sanou, celebre coreografo e qui danzatore, è particolarmente degna di nota; la sua esperienza e professionalità sono evidenti e contribuiscono a dare intensità, umanità e forza allo spettacolo.
A sfondo politico vorrebbe in parte risultare anche l’originale lavoro della coreografa e danzatrice spagnola Marta Izquierdo Muñoz che propone Roll, spettacolo che trae origine dal mondo dei pattini a rotelle. Mescola la realtà dell’allenamento, della competizione, dello spettacolo, che sono propri a questo mondo, a delle questioni politiche, a rivendicazioni femministe, nonché a delle esperienze personali. Un movimento intorno pattini a rotelle, in Spagna, si è sviluppato in particolare alla fine degli anni Settanta, quando i giovani cercavano di ridefinire il loro rapporto con gli spazi pubblici confrontandosi con la cultura tradizionale ancora impregnata di franchismo, apprezzando nella comunità costituitasi attorno ai roller la sua inclusività, lo spirito un po’ underground. I danzatori/pattinatori si preparano e assistiamo al modo di vivere il loro mondo comunitario, solidale più che competitivo, giocoso. Sul palco, tra materassi, istigazioni di una coach, discorsi politici, quattro donne e un uomo si librano in momenti di lavoro tecnico e in altri più comici, senza farsi mancare il live Instagram, tra movimenti circolari, volute a volte comicamente incerte, a volte prove di abilità, che risultano palesemente inadatte a un palco teatrale. L’ironia mista alla serietà dei temi trattati è una caratteristica di questa coreografa. Ma lo spettacolo rimane alquanto incompreso, non si riesce a profittare veramente del loro movimento, non si riesce a entrare, se non per brevi momenti, nel loro universo: dovrebbe essere liberatorio? Didattico? Politico? Divertente? Impegnato? L’esperimento per quanto potenzialmente interessante sembra restare un po’ fine a se stesso e il pubblico ne esce un po’ disorientato e deluso. Se alcune questioni e interrogativi attuali sono presenti anche nel lavoro dell’iraniano Sorour Darabi, è l’aspetto estetico e musicale a prevalere in Mille et une nuits, uno spettacolo completo di danza, musica, in cui lo spettatore è chiamato a perdersi nella contemplazione del dispositivo ideato dall’artista. In uno spazio rettangolare alcuni blocchi di ghiaccio sono appesi, quale carne in un macello, l’acqua cola poco a poco quale sangue. Le luci ne mettono sapientemente in risalto le caratteristiche fisiche. E questo evoca numerose suggestioni, tra cui la metamorfosi fisica come allegoria della fluidità di genere, la fragilità del corpo, il passare del tempo. Si ricordi a tal proposito l’utilizzo del ghiaccio da parte di un’altra artista, Phia Menard, in P.P.P. La figura di Sherazade, sia come pretessa che, come vittima sacrificale, emerge quale protagonista in un rituale di sensualità e angoscia, dove ghiaccio, candele, fuoco, cera e acqua si intrecciano in un complesso gioco di contrasti e metamorfosi, rivelando un grande valore estetico. Su un lato della scena tre musicisti accompagnano l’azione degli artisti, l’interazione tra loro e con la scena, con musica suonata dal vivo. Il canto è un elemento molto importante, tanto che qualcuno considera questo spettacolo un’opera contemporanea. Si è liberi di sedersi, di stare in piedi intorno all’area del rituale, si è liberi anche di uscire, ma, diversamente da quanto preannunciato, vale la pena restare fino alla fine e non andarsene quando più ci piace. ![]() Molto spettacolare anche Lunar Halo di Cloud gate dance Theatre of Taiwan che si esibisce per la prima volta a Montpellier, e che grazie al coreografo Cheng Tsung-Lung permette l’incontro di mondi diversi, diverse culture di danza e arti marziali, dalla tradizione alla contemporaneità, alle culture di altri paesi, anche americana, sottolineando altresì un aspetto sovrannaturale, spirituale, rituale. L’alone annuncia il cambiamento, tutto è instabile ed evolve. Così i 13 danzatori costruiscono tramite i loro corpi onde, linee, geometrie proposte in modo perfetto e perfettamente eseguite: magistralmente coordinati, costruiscono meravigliose figure animali le cui parti funzionano anche quando l’attenzione si focalizza su alcune di loro rispetto all’insieme. Compiono acrobazie degne della migliore tecnica orientale, creando mondi ulteriori tramite specchi, luci, costruzioni geometriche, anche per mezzo del video. L’utilizzo di quest’ultimo non è soltanto un espediente tecnico ma rimette in causa anche il ruolo della immagine, il potere della stessa che si estrinseca in quella figura umana che come un divino gigante sovrasta il gruppo dei danzatori, e quel display che quasi li schiaccia con la sua incombente presenza. Il video innesca una forma di inquietudine che traduce l’angoscia del cambiamento. Lo spettacolo è ineccepibile dal punto di vista tecnico, gli interrogativi suggeriti sono molti, forse c’è anche troppa carne al fuoco, ma il pubblico nel complesso gradisce l’estetica, l’atmosfera e la rassicurante perfetta esecuzione dello spettacolo.
Una apparente umana confusione alberga invece in Le monde en transe, terza e ultima parte di “Trilogie: la terre en transe", cui abbiamo assistito, proposta dal coreografo e danzatore marocchino Taoufiq Izeddiou: un epilogo che irradia un’energia straordinaria e sintetizza efficacemente il pensiero alla base dell’intero progetto. La performance si sviluppa con un’intensa vitalità fin dal primo istante, quando gli spettatori entrano in sala trovando i danzatori già in movimento. Questo flusso coreografico incessante, intervallato solo da brevi pause simili a istantanee fotografiche, si articola attraverso un’alternanza di danza tradizionale e contemporanea. I sorrisi dei performer trasmettono un senso di coinvolgimento e apertura che invita quasi il pubblico a partecipare emotivamente all’esperienza. Lo spazio scenico viene dinamicamente trasformato dall’entrare e uscire degli interpreti attraverso pannelli laterali, creando un suggestivo gioco di luci e ombre che arricchisce la dimensione visiva dell’opera. In questo contesto, l’uso di maschere aggiunge un ulteriore strato di significato, mentre la tensione tra individualità e collettività si manifesta in momenti in cui emergono gesti singoli che, talvolta, si propagano in modo contagioso attraverso il gruppo. La musica, un sapiente intreccio di elementi elettronici e tradizionali, non è semplice accompagnamento, ma elemento costitutivo che sostiene e amplifica l’energia della performance, guidando i danzatori attraverso le diverse sezioni dell’opera. Questa simbiosi tra movimento e suono rafforza il messaggio profondo del lavoro: una riflessione sulle potenzialità del corpo umano e sulla sua capacità di superare i propri limiti. Anche la voce, non intende essere canto, ma respiro risonante, elemento vitale e pulsante. Ed è proprio attraverso la fatica e lo sfinimento che i danzatori sembrano ritrovare una connessione più autentica con se stessi, con lo spazio e con gli altri interpreti, in un processo di continua evoluzione che trascende la dimensione puramente fisica. Questo percorso è intrinsecamente legato a una concezione della spiritualità non religiosa ma esperienziale, che sorprende e coinvolge gli stessi interpreti nel momento della performance. Il coreografo, infatti, concepisce l’arte come una missione, ogni interprete risulta indispensabile all’interno di un immaginario collettivo che nasce dal movimento stesso. L’opera non offre risposte definitive ma piuttosto solleva interrogativi che risuonano con il mondo contemporaneo. In questa apertura interpretativa risiede forse uno degli aspetti più affascinanti del lavoro: come confermato da Taoufiq Izeddiou, spesso il pubblico offre letture dello spettacolo che egli non aveva previsto, contribuendo così ad arricchire ulteriormente il significato complessivo dell’opera e completando un circolo comunicativo che va oltre le intenzioni originarie dell’autore. Un originale legame con la storia e l’evoluzione del gesto è anche quello presente in Shiraz, di Armin Hokmi, coreografo e danzatore iraniano, rivelazione che Montpellier Danse sostiene, e che, in un certo qual modo, si inserisce nel significativo fenomeno dei coreografi iraniani in esilio – da Sharifi a Moini – che stanno ridefinendo i confini della danza contemporanea. La performance si apre con sei danzatori già in scena che attendono l’ingresso del pubblico. I loro movimenti, caratterizzati da una qualità lenta e ripetitiva, invitano a un’osservazione prolungata e meditativa, in cui lo spettatore può indugiare sulle sfumature gestuali che si dispiegano con straordinaria precisione. La coreografia manifesta simultaneamente grazia, intensità, concentrazione, eleganza e una apparente facilità esecutiva. Ogni interprete, con la propria singolare fisicità, diviene portatore di un vissuto distintivo, creando un mosaico di corporeità in dialogo. La partitura di movimento evolve mantenendo tuttavia una costante economia gestuale: i movimenti, mai esagerati, appaiono continui e necessari, evocando le strutture ritmiche di certe forme di danza orientale. La dimensione ipnotica della performance si intensifica con il progressivo mutare delle luci e con l’emergere di dinamiche relazionali, quando alcuni interpreti sembrano voler stabilire contatti visivi reciproci, introducendo una nuova dimensione drammaturgica. Lo spettatore, gradualmente condotto in uno stato di quasi trance, si interroga inevitabilmente sulle radici culturali di tale approccio coreografico. Il titolo stesso dell’opera stabilisce una connessione significativa con il Festival delle Arti di Shiraz-Persepolis (1967-1977), evento storico che ha segnato un momento cruciale nella ricerca in danza. Questo approccio compositivo risuona profondamente con certe forme tradizionali di danza, dove i gesti ripetuti delle mani e i movimenti circolari evocano una simbologia ben definita, quasi a riprendere motivi architettonici dell’arte persiana classica. L’eredità di queste esplorazioni creando un linguaggio ibrido di notevole ricchezza semantica porta ad interrogarsi sul potere trasformativo della ripetizione gestuale. La ripetizione, in questo contesto, trascende la sua funzione puramente strutturale per divenire strumento di accesso a stati di coscienza e alla memoria culturale collettiva. Si assiste così a un fenomeno analogo alla variazione musicale su un tema: come un compositore trasforma una frase melodica attraverso cambiamenti di tonalità, ritmo, così i danzatori elaborano continuamente il loro vocabolario gestuale mediante sottili modifiche, preservando simultaneamente la qualità essenziale del tema originario. Ogni ripetizione porta con sé stratificazioni semantiche che oscillano tra il narrativo e l’astratto, generando livelli interpretativi che si approfondiscono ad ogni iterazione, in un processo di continua risignificazione del gesto danzato. Il pubblico unanimemente apprezza, stupendosi, quasi, di come lo spettacolo sia apparentemente semplice e nel contempo intenso. ![]() Un lessico corporeo differenziato, e un meticoloso rispetto dell’individualità espressiva dei singoli interpreti, è invece una delle caratteristiche della interessante collaborazione tra Michel Murray e il Ballet de Lorraine per Dancefloor. I danzatori, caratterizzati da percorsi formativi eterogenei, articolano un lavoro sul corpo che si configura quale strumento comunicativo che trascende i codici, divenendo ricettacolo della dimensione temporale: la gestione dello spazio, particolarmente complessa data la presenza di ventiquattro interpreti, viene affrontata con un equilibrio dinamico tra libertà d’espressione e rigore compositivo. Le sfide derivanti da tale numero di interpreti si trasformano in opportunità per l’elaborazione di soluzioni coreografiche. La struttura si sviluppa all’interno di un impianto predeterminato durante la fase di preparazione, consentendo variazioni esecutive nelle diverse rappresentazioni pur preservando l’omogeneità dell’atmosfera complessiva. Gli interpreti, in costante attenzione, mantengono frequentemente l’asse verticale, e si osserva un’alternanza tra momenti dialogici e sequenze autonome. Le transizioni presentano qualità aeree di notevole interesse compositivo. Emergono elementi di prossimità fisica, quali i baci, e variazioni dinamiche oscillanti tra celerità e lentezza esecutiva. La composizione integra efficacemente la dimensione della fisicità primordiale con elementi di raffinata compostezza, il pubblico ne apprezza la raffinata godibilità.
![]() Un’altra importante collaborazione è quella tra Anne Teresa de Keersmaeker e Radouan Mriziga per Il cimento dell’armonia e dell’inventione. Le impressioni degli spettatori che accompagnano questo spettacolo si dividono nettamente in due e dipendono anche dalla posizione che essi occupano a teatro. Una parte del pubblico fin dall’inizio si spazientisce a causa del fatto che le luci di sala restano accese e per un certo tempo sul palco non succede, apparentemente, niente - a parte dei lampi di scritte proiettati sullo sfondo - che la musica non è particolarmente presente e non è esegeticamente rispettato il suo dispiegarsi, infine per il fatto che lo spettatore dalla platea non è messo in condizioni di approfittare della scrittura coreografica che si disegna sul palco. L’altra parte del pubblico si lascia invece condurre con fiducia in questa intelligente rivisitazione, affidata a quattro straordinari danzatori, di uno dei capolavori di Antonio Vivaldi, “Il cimento dell’armonia e dell’inventione” appunto, e in particolare le Quattro stagioni. La musica è espediente per esplorare delle partiture di movimento che da essa si emancipano non volendo riproporre pedissequamente le volontà del compositore veneziano, ma piuttosto baroccamente, impertinentemente, giocare su quella particolare tensione tra armonia strutturata e invenzione creativa. Una sfida a riconsiderare queste stesse tensioni attraverso un coraggioso linguaggio proprio alla danza contemporanea, per scelte estetiche, giocosità, ibridazione. Uno spolverino rosa indossato con i pantaloni di una tuta non renderà il movimento meno interessante, né lo stridere dei passi e delle volute sul palco distoglierà dall’intensità della partitura, né il comportamento ludico ridurrà la deliziosa, raffinata vivacità di questo trionfo di armonia, reinventato. Il risultato, sebbene non da tutti compreso, offre una prova convincente della grande vitalità di questo capolavoro musicale nella sapiente, fisica, interpretazione contemporanea.
Una certa energia vitale è presente, a dispetto di quanto potrebbe suggerire il titolo, anche in Requiem(s) di Angelin Preljocaj. Come spiega il coreografo, l’idea di questo spettacolo parte da un’esperienza personale di perdita, per aprire poi verso una vitale riflessione collettiva. Il coreografo si avvale della collaborazione di 19 eccellenti danzatori per manifestare la tensione tra vita e morte, transizioni tra stati di potenza, utilizzando il corpo come campo di forze e intensità. La danza non si vorrebbe quindi solo espressione formale ma anche esplorazione di idee, dando all’angoscia della morte una dimensione estetizzante. In tanti quadri successivi che sgranano una sorta di via crucis, i danzatori, tra iconografia cristiana, video, cliché macabri, musica sacra e rock, esprimono diversi modi di rappresentare, di vivere, la morte e il lutto a volte in maniera talmente eccessiva da quasi esorcizzare le paure. Gli orrori generali si mescolano al dolore personale tra neoclassico e grottesco. Il movimento in sé manifesta allora l’espressione della vita con una sorta di energico messaggio finale, che sottolinea come l’arte e la bellezza aiutino a vivere. Il pubblico in parte è un po’ stordito dall’insieme di immagini e temi, talvolta troppo carico, e in parte gradisce l’ineccepibile perfezione dei danzatori e quella particolare estetica dell’apprezzato coreografo. E restando in tema di raffinatezza, l’ultimo spettacolo visto percepito molto semplicemente come emblema di quegli alti livelli di finezza, di ricerca e piacere estetico raggiunti da Merce Cunningham, di cui il CCN-Ballet de Lorraine propone i noti Rainforest (1968), Sounddance (1975) e CRWDSPCR (1993), all’epoca proposte decisamente all’avanguardia per innovazione tecnica e coreografica, rievocando studi intorno al caos organizzato, effetti stranianti, dadaisti, e Andy Warhol. Ci si potrebbe legittimamente chiedere in che modo i corpi contemporanei reinterpretano questi pezzi storici e come si rapportino con contesti tecnologici ora ulteriormente evoluti, ma gli spettatori vedono per la maggior parte soprattutto l’eccezionale occasione per godere di opere d’arte straordinarie e pertanto considerate atemporali, eseguite magnificamente.
Il luogo ideale per esplorare gli interrogativi sulla danza contemporanea sono invece le tavole rotonde in cui artisti, politici e critici si confrontano in uno scambio costruttivo. Questi incontri permettono di ricostruire la traiettoria della danza contemporanea in Francia, analizzando il ruolo che oggi le viene attribuito, le sfide attuali legate ai finanziamenti e agli spazi - luoghi pluridisciplinari necessari alla creazione - come anche la questione di come proporre artisti ancora sconosciuti al pubblico. Non ultimo, emerge il tema dello spazio della critica, ormai notevolmente ridotto e svilito a mero strumento di promozione degli eventi. Come di consueto, il programma offre inoltre una ricca varietà di attività collaterali, tra cui le apprezzate lezioni di danza tenute gratuitamente in spazi pubblici da coreografi e danzatori, che attirano sempre una numerosa partecipazione cittadina. Il Festival si conferma ancora una volta un riferimento d’eccellenza per il pubblico e un faro luminoso per la danza in Europa. Un sentito ringraziamento va al direttore Jean-Paul Montanari e all’intera straordinaria équipe di Montpellier Danse. Sara Maddalena
Scrivono in PASSPARnous:
Bruno Benvenuto, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Alfonso Amendola, Mario Tirino, Vincenzo Del Gaudio, Alessandra Di Matteo, Paulo Fernando Lévano, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, MassimoMaria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Libera Aiello, Antonio Mastrogiacomo, Giulia Vencato, Alessandro Baito, Margherita Landi, Nicola Candreva, Patrizia Beatini, Mirjana Nardelli, Stefano Oricchio, Manlio Palmieri, Maria D’Ugo, Giovanni Ferrazzi, Francesco Ferrazzi, Luigi Prestinenza Puglisi, Davide Palmentiero, Maurizio Oliviero, Caterina Perrone, Nicola Bianchi, Gloria Chesi, Laura Talia, Francesco Panizzo. |
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