INTERVISTA A LORENZO DALLAÏ
Intervista a cura di Sara Maddalena
Lorenzo Dallaï è un coreografo e danzatore italiano da una ventina d’anni residente in Francia, dove si è formato professionalmente, in particolare a “E.X.E.R.CE” al Centro Coreografico Nazionale di Montpellier, sotto la direzione di Mathilde Monnier. Ha effettuato varie esperienze internazionali, studiando per esempio a New York, presso gli studi di Merce Cunningham e Trisha Brown, e a Venezia con Carolyn Carlson. Attualmente lavora come coreografo e danzatore per la compagnia Roberte & Robert, da lui creata con Sandrine Frétault e come interprete per vari altri noti coreografi. Insegnante di Danza Contemporanea diplomato, esercita tale attività tanto nelle scuole che in collaborazione con strutture locali ed enti quali Montpellier Danse, per eventi volti alla conoscenza e alla diffusione della danza contemporanea presso un ampio pubblico. La sua esperienza, i suoi progetti e il suo modo di pensare la danza contemporanea risultano particolarmente interessanti, lo abbiamo quindi intervistato per voi e lo ringraziamo per il tempo dedicatoci.
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![]() Qual è il tuo rapporto con i “codici”, le “tecniche” della danza? Qual è il rapporto tra l’espressione di libertà e il bisogno di regole?
Non ho frequentato una grande scuola internazionale di formazione di danza, ho studiato però all’accademia d’arte drammatica Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi, a Milano, dove c’era un laboratorio di teatro danza, ma ho cominciato la danza abbastanza tardi, a diciott’anni, in maniera un po’ amatoriale e in seguito ho avuto la necessità di apprendere le tecniche perché sentivo che altrimenti mi mancava qualcosa. Sono stato anche a New York e ho lavorato con tecniche abbastanza rigide, come quelle di Cunningham o Graham, pur sapendo che poi quello che è interessante è l’utilizzo della tecnica come mezzo per arrivare a conoscere il proprio corpo e farne quello che si vuole, perché non penso sia interessante vedere su una scena di un teatro quello che si può fare a un corso di danza. La tecnica è un mezzo, e anche se poi fai della non-danse o lavori su delle forme non necessariamente danzate, penso che un training giornaliero costante e regolare, con certe esigenze fisiche, sia importante; quindi, cerco anche oggi di continuare a farlo, ma attraverso, per esempio, lo yoga, che permette la percezione e la conoscenza del corpo, senza l’aspetto “spettacolare”. Quello che mi interessa vedere su un palco non è la tecnica, non mi interessa vedere qualcuno che fa tre giri in aria, ma piuttosto la presenza, come uno abita il proprio corpo. Anche quando lavoro con persone che non sono professionisti, e le esigenze sono diverse perché non tutti hanno le stesse capacità, quello che mi interessa è la presenza, la qualità del loro lavoro, la precisione, e diviene interessante anche un lavoro fatto da danzatori amatoriali: per me è importante come si fa una cosa, più che che quello che si fa. In che modo lo yoga influenza la tua maniera di lavorare sul corpo nella danza? Come dicevo lo yoga è una pratica che permette un allenamento fisico, ma anche di concentrazione e di senso, e secondo me si vede negli spettacoli, ma non è volontario che si veda, non deve essere manifesto, è un mezzo di conoscenza ed esplorazione del corpo, come la danza, mezzo di esplorazione di se stessi, dello spazio, del tempo. L’influenza è però sempre indiretta, non vuole essere diretta. Sto sviluppando anche un processo pedagogico, come a partire dallo yoga si può arrivare alla danza. Lo yoga è molto preciso, e per esempio prima degli spettacoli in cui c’è una drammaturgia chiara, ma procediamo con l’”écriture chorégraphique instantanée”, dobbiamo metterci in uno stato di grande precisione, che lo yoga permette, ed è quindi utile per la preparazione. Quando prepari uno spettacolo in che misura lo vivi come modo di riscoprire te stesso o come mezzo per trasmettere un messaggio? Quando si crea uno spettacolo per me quello che è importante è l’idea di ricerca: cercare qualcosa è quello che mi ha affascinato della danza come forma artistica, che comunque è un lavoro infinito, cerchi sempre qualcosa, una nuova forma, con altre persone. Trasmettere un messaggio non mi interessa molto, nella misura in cui a volte quello che si ha da dire diventa più importante dello spettatore, io invece voglio far vedere un’esperienza di ricerca e poi lo spettatore può decidere se accettarla, e interpretarla, leggerci qualcosa, ma non ho una storia, una morale da raccontare, non mi interessa, quello che mi interessa è il corpo, come il corpo può suscitare emozione e sensazione nello spettatore, è l’utopia che attraverso il mio corpo che danza posso far danzare gli spettatori. È un’utopia, certo, non è reale, ma non voglio che lo spettatore ammiri quello che faccio ma piuttosto vorrei incarnare lo sguardo dello spettatore, perché se è ammirativo resta all’esterno, quello che mi interessa invece è diventare mezzo, catarsi, strumento per lo spettatore che non ha la mia professionalità, ma che attraverso di me, e grazie allo spettacolo, può danzare. Per questo spesso con la mia collega Sandrine lavoriamo su un’azione, un’azione che tutti possono fare. Ultimamente quando abbiamo fatto lo spettacolo Acte III -Toucher, una spettatrice ci ha detto che l’ha apprezzato perché le sembrava che avrebbe potuto venire a danzare con noi, che sarebbe stato possibile. Abbiamo, attraverso l’esperienza e il percorso tecnico, delle qualità differenti, però è più grande la volontà di avvicinarsi allo spettatore che di allontanarsene, non voglio dire agli spettatori “guardate quello che sono capace di fare”, ma quasi “guardate cosa potreste fare anche voi”. Hai lavorato con altri celebri coreografi e con danzatori di diverse formazioni, c’è qualche esperienza che ritieni particolarmente significativa? Ho fatto vari spettacoli come interprete e qualche progetto con artisti molto conosciuti, come Jerome Bel, ma avrei voglia di parlare di due spettacoli che ritengo interessanti. Il primo è uno spettacolo fatto con Fabrice Ramalingom, Postural: Études, del 2007, in cui eravamo 15 uomini, metà professionisti e metà non professionisti, tutti in calzoncini corti, e le azioni erano molto semplici, appunto perché la sua volontà era quella di creare un universo, un’uniformità fra tutti, e l’idea di far vedere corpi differenti, di età differenti, di origini differenti; secondo me era molto semplice ma molto bello, ed emozionante, non c’era scenografia, solo un tappeto bianco e tutti i suoni erano prodotti sul palco, anche alcune melodie cantate. Il secondo è un duo con Michèle Murray, Lac, del 2010, su delle ouvertures delle opere di Wagner, anche in questo caso una cosa molto semplice, con una qualità un po’ più animale, come delle creature che si muovono in un paesaggio un po’ strano. Ecco, questi sono alcuni ricordi di esperienze di danza che ho voglia di difendere. Cosa pensi delle differenze per quanto riguarda il panorama della danza contemporanea in Francia e in Italia? Non conosco molto la danza contemporanea italiana, ma penso che se fossi rimasto in Italia non avrei potuto fare carriera come danzatore, perché quando sono arrivato in Francia era un periodo in cui la sperimentazione stava un po’ finendo, ma comunque c’era la possibilità di lavorare anche per tutti quelli che non avevano una formazione “forte”, tecnica, che sia classico o neoclassico o Cunningham, tecniche di danza moderna, c’era un’apertura possibile. In Italia, all’infuori forse di qualche eccezione, di nicchia, ho l’impressione che le forme di danza fossero più legate allo spettacolare, performativo: cose che ho fatto qui non sarebbero state possibili in Italia, dove il linguaggio era più legato a una certa estetica, più classica - ci si muoveva, sempre, secondo riferimenti conosciuti. Magari una certa ricerca che si fa in Francia e che è considerata danza in Italia secondo me è più sviluppata nel teatro, per questo secondo me alcuni registi italiani come Romeo Castellucci o Pippo Delbono, che in Italia sono legati principalmente al teatro, in Francia sono invece stati visti e seguiti da molti danzatori. Qual è il tuo modo di pensare il corpo nella danza, tra spiritualità e sensorialità? Non sono contro una visione spirituale della danza, anche se a me non interessa: tutto quanto è spirituale secondo me resta personale. Però mi è capitato di riflettere sul fatto che puoi danzare tutta la vita senza mai fare uno spettacolo, mentre se fai teatro è in relazione a un pubblico - all’infuori di alcune esperienze tipo Grotowski che lavorava per anni a uno spettacolo e poi invitava tre persone a vederlo. La danza può essere un’esperienza personale, un’esperienza sensoriale, o mistica - le danze sono utilizzate anche per questo - ma poi la danza può diventare uno spettacolo. Cosa si vuol far diventare uno spettacolo e perché? E quando diventa uno spettacolo non è più un atto spirituale, è troppo intellettuale o forse è entrambe le cose? Qualsiasi corpo può danzare, ma quali corpi si possono o si debbono mostrare in uno spettacolo di danza e perché? Io sono dell’idea che tutti i corpi possano essere mostrati, ancora più oggi che si parla di inclusione, dipende poi da come si mostrano: non danzi con il tuo corpo, ma nel tuo corpo. Secondo me quindi è possibile, ma ciò non vuol dire che non ci deve essere un lavoro di sensazione, percezione, precisione, coscienza; è un po’ tutto il lavoro della danza contemporanea, un lavoro di coscienza ti permette di affinare quello che puoi fare col tuo corpo, attraverso varie tecniche. È peccato che oggi molto spesso nei progetti che si fanno con i danzatori amatoriali non si abbia il tempo per affinare, però io voglio credere che tutti, dal momento che abbiamo un corpo possiamo mostrarlo, se ne abbiamo la voglia - perché non tutti ce l’hanno, come dicevo prima ci sono tante persone che danzano ma che non sono interessate a farlo vedere, è un’esperienza personale. E comunque un corpo che danza può essere visto, può essere filmato, può essere visto dall’interno, può essere udito, ci sono vari modi… Come vedi il tuo percorso, la tua evoluzione come danzatore? Su quali progetti stai lavorando ora? Io sono danzatore in vari progetti, sia di altri, per esempio François Rascalou, Brigitte Négro, che miei. In questo momento sto lavorando principalmente su due progetti. Un progetto che sto facendo con un’attrice della Bulle Bleue, un duo con Laura Delfaz, che è un’attrice con sindrome di Down, in cui rivendico il fatto che siamo tutti e due creatori e l’idea è che arriviamo con il nostro vissuto, con le nostre esperienze. Siamo un uomo e una donna, un uomo “normale” e una ragazza di 37 anni diciamo “speciale”, lei francese e io italiano; quindi, veniamo con il nostro bagaglio e parliamo di noi, anche della nostra sessualità, della nostra sensualità - lo spettacolo lo stiamo creando, non è ancora finito. E poi facciamo questo lavoro di ricerca di cui parlavo, con Sandrine Frétault, nell’ambito della compagnia Roberte & Robert, sul “toccare”, come uno dei sensi che ci mette a conoscenza, che ci permette l’incontro con gli altri. Abbiamo creato un dispositivo in cui il pubblico è vicino a noi che danziamo, e la coscienza del toccare, lo spazio, il suolo, noi stessi, e anche l’altro; poi a un certo punto ci avviciniamo e tocchiamo anche il pubblico, come segno di conoscenza, di incontro e poi mettiamo il pubblico in contatto, gli uni con gli altri. Lo spettacolo è in divenire, lo abbiamo già mostrato più volte, ma come laboratorio di ricerca, perché comunque vorremmo che rimanesse sempre un laboratorio, che ci piacerebbe rendere accessibile anche a un pubblico diverso, come un pubblico cieco o sordo, e quindi cerchiamo esperienze differenti. Quale importanza e ruolo hanno i costumi e il trucco nel tuo lavoro? Hai collaborato con importanti light designer, cosa cerchi nell’interazione del corpo con la luce, quale dimensione estetica riveste la luce? Nel lavoro che facciamo con Roberte & Robert è abbastanza importante perché la scenografia è costituita dal costume, dal trucco e dalla luce. Per esempio, in Le Pli, siamo praticamente tutti e due in slip perché abbiamo la necessità di far vedere il corpo in relazione con un importante lavoro sulle luci: abbiamo solo un elemento scenografico, un tessuto, un drappeggio, come nelle opere barocche, perché abbiamo lavorato sull’estetica barocca del piegare, però avevamo l’esigenza di far vedere la pelle e abbiamo lavorato con la luce del barocco, l’idea di chiaroscuro per dare il volume. Per esempio, in Act I – Pousser e in Act II – Abandonner abbiamo dei costumi semplici, però per l’Act II, abbiamo avuto la necessità di coprire il corpo con delle tute da sci e coprire anche il viso con un trucco di paillettes: quasi non abbiamo più corpo, o è un corpo di marionette. E per esempio in Act I, più accademico, siamo truccati come dei danzatori, in riferimento ai danzatori classici, o di Cunningham, e anche a questo sforzo, a questa lotta di tutti i giorni, al danzare come una cosa un po’ ossessiva, come un training che non puoi smettere mai. In Act III in cui lavoriamo sul “toccare” abbiamo costumi molto semplici, comodi, come fossero delle prove, però abbiamo una luce rosa, e anche il pubblico è in questa luce rosa. Per Les Karlotta invece è proprio il costume che veramente fa lo spettacolo, si tratta di una performance per uno spazio pubblico, in cui abbiamo tutti e due, donna e uomo, questo grande costume quasi ottocentesco. Penso abbiamo la necessità di non lasciare la scenografia all’esterno del corpo: il costume e il trucco fanno parte del corpo, è l’idea che di un corpo scenografico e di fare tutt’uno con la scenografia, che non è separata dal corpo. Per il lavoro con Laura l’attrice della Bulle Bleue è un po’ diverso, ci sarà una particolare creazione della luce che sia adattabile all’esterno, però l’idea è di far vedere il corpo, in modo forse meno astratto, più evocativo, abbiamo una costumista, una scenografa e una creatrice luci. Con Catherine Noden, artista light designer, per Le Pli abbiamo lavorato sull’estetica barocca, delle luci al suolo “gialle”, calde, rasanti, per creare appunto zone di chiaroscuro, mentre per esempio per il duo di Laura ho chiesto di creare un ambiente luminoso come se fosse un’installazione quasi indipendente. Con il passare del tempo penso sempre di più che il “mi devi illuminare quello che faccio” secondo me non è interessante, ma piuttosto “con la luce creo questo ambiente”, che può variare di intensità magari da un luogo a un altro, ma che non viene costruito temporalmente e spazialmente come un susseguirsi di “faccio questa cosa qui, ci metti la luce lì, faccio questa cosa là, metti la luce là”. Ecco perché sto chiedendo una installazione luminosa. Voglio cose semplici e in generale ultimamente mi piacciono un po’ meno le scelte molto scure, preferisco che si veda, che si vedano anche i difetti ma che si veda il corpo, mostrarlo, anche se la creazione luci dipende comunque sempre dal singolo progetto e dal light designer con cui collaboriamo. Sara Maddalena
Per ulteriori informazioni: www.roberteetrobert.com
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