Ja - Kuba
Un film di Michaíl Kalatózov
Articolo di Nicola Bianchi
Ja - Kuba (il trattino è doveroso: il verbo essere in russo non fa copula), in spagnolo Soy Cuba e in inglese I am Cuba, è un film del 1963 di Michaíl Kalatózov, girato col supporto sia di Chruščëv sia di Castro per informare il pubblico dell’importanza della Revolución cubana per la popolazione dell’isola caraibica. È stato, quindi, un film di stato, promosso dalla potenza sovietica alleata di Castro contro la dittatura di Fulgencio Batista che voleva Cuba schiava dell’economia statunitense. Kalatózov, già quasi a fine carriera, girò nel bel mezzo della Crisi dei missili (16-28 ottobre 1962) ma data l’ufficialità del progetto ottenne lo stesso la piena collaborazione delle autorità.
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Negli anni post Nouvelle vague, quando il Cinema, a livello internazionale, apprezzava quella che si potrebbe definire l’avanguardia di Fellini e Antonioni, che attecchiva anche in non poca Hollywood (Jerry Lewis, Peter Sellers & Blake Edwards, Tony Richardson e il suo Tom Jones, che nel ‘63 vinse l’Oscar per il miglior film), Kalatózov, con una piccola troupe sovietica a Cuba, dove spiccavano l’espertissimo direttore della fotografia Sergéj Urusévskij e il poeta Evgénij Evtušénko che con Enrique Pineda Barnet scrisse la sceneggiatura, dice la sua su quell’avanguardia, arrivando in modo sorprendente a dei risultati così radicali da poter essere apprezzati davvero solo dopo 20 anni.
In 140 minuti quasi esatti, Kalatózov opta per una narrazione che non è una vera narrazione ma una presentazione lievemente diegetica, priva di qualsiasi supporto allo spettatore voluto dalla Hollywood classica e parruccona (ancora attiva, nonostante tutto: oltre al Nutty professor di Lewis e alla Pink panther di Sellers, nel 1963 escono anche il Camelot di Joshua Logan, con la sua parrucconissima gestione del sound stage, e The great escape di John Sturges, denso di star system e di semplificazione della Storia, maiuscola, in storia, minuscola), che inanella paratatticamente quattro micro-storie di vita quotidiana a Cuba durante il regime di Batista quasi su un piano inclinato in salita, dalla più particolare alla più universale, fino all’ultima vicenda di partecipazione collettiva alla lotta di liberazione. Tutte e quattro le storie sono incorniciate dalla voce della stessa Cuba (la voce è di Raquel Revuelta), che si presenta con il titolo, «Soy Cuba» (tutti parlano la loro lingua madre nel film: i cubani parlano spagnolo e gli americani inglese), a commentare le vicende con interventi velatamente poetici, scritti da Evtušénko, che seguì la Revolución come corrispondente della Pravda, e allora non proprio nelle grazie di Chruščëv dopo le noie per la Sinfonia n. 13 di Šostakóvič, basata su un testo di Evtušénko sul massacro di Babij Jar, invisa al partito ed eseguita solo con sapienti sotterfugi da Šostakovič e dal direttore d’orchestra Kiríll Kondrášin nel 1962 (Kalatózov e Urusévskij ebbero grossi problemi a includere il poeta nella crew). La prima storia narra di Maria, costretta, col nome di Betty, più appetibile per un target internazionale, a prostituirsi con gli americani per avere del denaro per potersi sposare con un povero “fruttarolo”. Accetta di essere adescata dai suoi altolocati clienti in un pub volgarmente avvenieristico, dove viene suonata musica americana (Crazy love di Paul Anka) adattata in spagnolo (Loco amor), che esprime bene il rapporto davvero pazzo tra la Cuba di Batista e gli USA nell’interpretazione passionale ma sofferta del cantante (accreditati per la performance sono i Los Diablos). Un cliente insiste per essere “trattato” a casa invece che in albergo e Maria lo porta nel suo villaggio. L’americano pretende, oltre al sesso, anche il crocifisso che la ragazza porta al collo: dice proprio di collezionare crocifissi.
Il terzo tempo è dedicato a più personaggi: Gloria viene importunata da militari della marina americana per le strade dell’Avana e viene salvata da Enrique, appartenente ai ribelli castristi attivi nella capitale. Enrique fa parte dell’ala più radicale, favorevole alla svolta immediata verso la lotta armata, ma al primo incarico di uccidere un poliziotto ferocissimo contro la popolazione, fallisce per pietà (non riesce a premere il grilletto perché al momento previsto per l’attentato il poliziotto è con i figli piccoli), e quel poliziotto guida la violenta repressione in cui rimangono uccisi uno stampatore clandestino e lo stesso Enrique, in una crudelissima azione pubblica che lascia sconcertata una città che, commossa, partecipa al corteo funebre di Enrique sventolando bandiere cubane.
Il senso delle storie, la tristezza dei personaggi e la loro voglia di giusta rivalsa politica sono espresse quasi totalmente dalla macchina da presa, che sembra riprendere sentimenti e intenzioni più che performance degli attori, e sembra lei stessa agire le metafore delle immagini. L’amore pazzoide nel pub di Maria/Betty, in cui il cantante interpreta in modo caldo ed espressionista la malata relazione tra Cuba e USA, è designato da una macchina da presa che riprende il cantante con un continuo e sinuoso piano sequenza lunghissimo, sporco di estranianti riprese sghembe e ravvicinatissime al personaggio nel momento della sua massima emozione.
Entrambi sono molto di più di un puro sfoggio tecnico: nella loro specularità indicano quanto l’opulenza produca morte e risentimento nella popolazione, e così come il primo piano sequenza è efficace nel rendere l’edonismo americano, il secondo è impareggiabile nel comunicare il lutto e il sentimento universale della voglia di riscatto rivoluzionario del popolo cubano oppresso.
È come se la macchina da presa provocasse l’azione più che seguirla, come se il cinema si palesasse parte in causa degli eventi che rappresenta, sancendo la consustanzialità tra la finzione della ripresa e la realtà del sentimento che suscita. L’effetto e le azioni del profilmico sono volute, sono responsabilità consapevole del cinema e non serendipità idiota che conta sulla fortuna: le cose accadono se le fai accadere, non certo se aspetti che succedano per magia per conto loro. Kalatózov e Evtušénko dicono tutto questo nel loro cinema, ben sottolineando in finzione l’urgenza della filosofia rivoluzionaria.
Nicola Bianchi
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